La psichiatria è nata nei manicomi e gran parte delle teorie e delle convinzioni sulle malattie mentali si sono sviluppate e diffuse attraverso l’osservazione delle persone internate. La parola “manicomio” deriva dal greco antico e significa luogo destinato a curare o assistere i folli.
Si tratta in genere di un edificio isolato, molto spesso ai margini della società o anche distante da esso. Da un lato il manicomio doveva permettere di raccogliere “i pazzi” in un unico luogo per studiarli e curarli, dall’altro serviva a difendere la società e a garantirne la tranquillità.
Dagli inizi del Novecento in poi il manicomio diventa sempre più una cittadella autosufficiente nella quale si svolge una vita regolarmente separata dal mondo esterno: il cittadino giudicato pazzo arriva al manicomio portato a forza per disposizione delle autorità pubbliche. Una volta entrato perde completamente la sua libertà e la sua autonomia.
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Organizzazione del manicomio e personale addetto
Un’organizzazione minuziosa e rigida si impossessa della persona malata, programma il suo avvenire, decide ogni minuto della sua giornata, gli vengono sottratti anche i segni esteriori della sua individualità umana; è costretto ad indossare gli abiti forniti dal manicomio, una vera e propria uniforme, ed è privato di ogni oggetto personale.
Tutto ciò ha lo scopo di ottenere il controllo assoluto del comportamento imprevedibile ed irregolare del paziente e di dominarlo per costringerlo ad adeguarsi nuovamente al rispetto delle norme, agli ideali di razionalità, ai quali si pensa debba corrispondere la normalità.
Il manicomio era posto sotto l’assoluta autorità del Medico-direttore, che decideva personalmente delle terapie, delle ammissioni e delle dimissioni dei pazienti, delle attività a cui dovevano essere adibiti; e inoltre provvedeva all’intera organizzazione dell’istituto. Pochi altri medici poi provvedevano alle diverse incombenze sanitarie e un gran numero di infermieri di fatto aveva le funzioni di custodia e di personale di fatica.
Tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento, la macchina del manicomio raggiunge la sua radicale perfezione; tutto è previsto e regolamentato. I pazienti sono accuratamente selezionati non in base alle caratteristiche delle malattie e dei bisogni di terapia, ma secondo il tipo di comportamento e delle esigenze di custodia.
Ogni reparto e ogni zona del manicomio ha dei limiti invalicabili dove pazienti, infermieri e medici sono catturati in un ingranaggio che non lascia spazio all’imprevisto concepito per sorvegliare, scrutare, rendere inoffensivo. La tecnica del controllo totale ha portato ad inventare un’edilizia particolare, a definire il tipo di arredi, di porte e finestre, del vestiario, a regolamentare in modo puntiglioso i pasti, il riposo, le funzioni personali più intime. le occupazioni.
Interventi terapeutici nel manicomio
Gli interventi terapeutici erano rivolti alle condizioni generali di salute del ricoverato e a cercare di normalizzare il loro comportamento.
Ricordiamo solamente alcuni dei metodi escogitati dalla psichiatria manicomiale allo scopo di modificare i segni della follia (il pensiero, i modi di comportamento, i sentimenti, ecc.) agendo sul corpo del folle, più precisamente sugli organi e sulle funzioni ritenute di volta in volta importanti per la vita psichica: abbandonati purganti, salassi, applicazioni di sanguisughe su varie parti del corpo, provocazione di ascessi, cauterizzazioni. Largamente usata è stata l’idroterapia nelle forme più varie: doccia, o goccia a goccia sul capo, o bagni prolungati anche per giorni interi. Sempre adoperati sono stati i farmaci, in particolare quelli sedativi.
A fianco di questi interventi nei manicomi si è attribuita importanza a tutta una serie di tecniche che pur mutando con il passare del tempo hanno mantenuto lo scopo fondamentale di reprimere le manifestazioni abnormi dei folli per ricondurli a un comportamento ordinato o possibilmente normale
Ancora intorno al 1830 era impiegata la famosa macchina rotatoria che consisteva in una sedia sulla quale era legato il paziente, che era sospesa in modo da poterlo far girare vorticosamente, centrifugando il paziente stesso fino a fargli perdere i sensi.
A questi ritrovati della psichiatria di un tempo, vanno aggiunti numerosissimi strumenti di repressione come i letti e le sedie di forza, dove il paziente veniva legato saldamente per ore e giorni, strumenti per legare mani e piedi, sacchi per avvolgere tutto il corpo; lacci, cinghie di ogni foggia e per qualsiasi uso.
Manicomio criminale giudiziario
I manicomi criminali giudiziari erano istituti di internamento destinati schematicamente a due categorie di persone:
- coloro che colpevoli di un delitto erano stati assolti perché riconosciuti infermi di mente e quindi non responsabili al momento del reato;
- coloro che avevano manifestato segnali di malattia mentale, dopo aver commesso un reato durante la permanenza in carcere.
Per anni gli psichiatri avevano chiesto che fossero istituiti luoghi speciali per questi individui considerati pericolosi e turbolenti, ribelli, capaci di avere una cattiva influenza sugli altri ricoverati.
I pazzi criminali facevano paura; si pensava che una volta commesso il delitto dovessero sicuramente ripeterlo, essendo destinati alla delinquenza,
Se il manicomio è segregazione dura, il manicomio giudiziario diventa esclusione durissima; è un luogo concepito per la massima sicurezza, che riunisce le peggiori caratteristiche del manicomio e del carcere nel quale la terapia è pura illusione.
Disposizioni di legge
Legge 14 febbraio 1904
L’articolo 1 della legge 14 febbraio 1904, promossa dal Ministro Giolitti, dal titolo Disposizioni sui manicomi e sugli alienati sostiene che debbono essere curate e custodite nei manicomi le persone affette per qualsiasi causa, da alienazione mentale, quando siamo pericolosi per sé e per gli altri, o riescano in pubblico scandalo, e non possono concretamente essere custodite e curate fuori dai manicomi.
Nel testo della legge troviamo dunque non solo concetti come pericolosità e scandalosità del malato mentale, ma anche termini come cura e guarigione. Ma ciò che viene posto in primo piano è comunque l’esigenza della tutela dell’ordine pubblico.
Il bisogno di salute passa radicalmente in secondo piano: la psichiatria diventa un’organizzazione rigidissima, che deve garantire il più adeguato controllo del comportamento delle persone affinchè nulla accada che possa turbare l’ordine pubblico.
Obbligo di ricovero
Alla base c’era l’idea che il malato dovesse essere costretto a ricoverarsi. Quando un cittadino mostrava un comportamento che disturbava o preoccupava il suo ambiente, scattava il meccanismo del ricovero coatto, cioè obbligatorio.
Trascorso il termine massimo di trenta giorni, il direttore del manicomio aveva l’obbligo di decidere o la dimissione del paziente o il suo internamento definitivo.
In questo caso il potere giuridico non avrebbe cessato di scrutarlo e controllarlo e con lui anche i suoi familiari e i suoi discendenti. La notizia dell’internamento era immediatamente registrata nel casellario giudiziale e costituiva un marchio incancellabile riprodotto in ogni documento che il paziente una volta dimesso avrebbe dovuto richiedere. Era comunque difficile che, una volta internato in via definitiva, il paziente venisse poi dimesso.
Negli anni che seguono la legge del 1904 sempre di più si afferma tra gli psichiatri italiani una rigida visione organicistica delle malattie mentali, basata esclusivamente sulla ricerca delle cause fisiche corporee dei disturbi del comportamento trascurando del tutto il problema della relazione del paziente con il suo ambiente, con le altre persone, con gli avvenimenti significativi della sua esistenza.
Le terapie impiegate: farmaci sedativi e contenzione meccanica; piretoterapia, psicochirurgia e le tecniche di shock.
Nei decenni successivi non vi furono significative novità: gli istituti psichiatrici non si chiamarono più manicomi e presero il nome di ospedali psichiatrici, ma cambiato il nome tutto rimase immutato.
Legge 431/1968
La Legge 431 del 1968 introdusse importanti innovazioni:
- la possibilità del ricovero volontario, su semplice richiesta del cittadino senza limiti di tempo, e la possibilità di trasformare il ricovero coatto in ricovero volontario;
- l’abolizione dell’iscrizione dei ricoveri nel casellario giudiziale.
Si riconosceva così che essere ricoverati in ospedale psichiatrico non avrebbe più dovuto essere un marchio indelebile.
Altre norme della legge tendevano semplicemente a favorire lo svecchiamento della psichiatria in un’organizzazione più moderna di tipo sanitario.
Nascevano, così, servizi di igiene mentale extra ospedalieri, dotati di proprio personale, psicologi, neuropsichiatri infantili, assistenti sociali. Cominciarono a diffondersi le idee della psicoanalisi, della sociologia, dell’antropologia culturale, scienze che permettevano di vedere sotto una luce diversa i problemi della follia e dei manicomi e offrire strumenti per criticare il modo di pensare della psichiatria tradizionale.
In questa situazione venne maturando la consapevolezza che se compito della psichiatria era curare i malati di mente, il manicomio non rispondeva affatto a questa esigenza. Al contrario, esso aggiungeva nuova sofferenza e addirittura produceva nelle persone internate la cosiddetta nevrosi da istituzionalizzazione, una sorta di regressione profonda della personalità con apatia, indifferenza perdita della capacità di iniziativa e di rapporto con l’altro.
Questo cambio di prospettiva culminò con l’esperienza di Basaglia e il passaggio alla Comunità terapeutica, momento cruciale che necessita ulteriore approfondimento per le rilevanti implicazioni