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Da “La chiave dei ricordi” di Kathryn Hughes alla storia dei manicomi

Da “La chiave dei ricordi” di Kathryn Hughes alla storia dei manicomi

La chiave dei ricordi

Il romanzo “La chiave dei ricordi” affronta, attraverso le vicende e le scoperte della protagonista, un tema molto delicato e, per decenni, al centro di importanti dibattiti: le condizione di vita dei pazienti nei manicomi e negli ospedali psichiatrici.

Sarah, la protagonista, a 38 anni divorzia dal marito e si rifugia a casa dei suoi genitori per trovare conforto e nuovi impulsi.

Decide di scrivere una storia su “Ambergate”, l’ospedale psichiatrico del paese, dove il padre lavorava in qualità di medico. Ormai chiuso da anni e decadente, sta per essere abbattuto. Nonostante il padre non voglia che la figlia vada a curiosare in quel posto, decide di entrarvi ugualmente.

Salita in soffitta si imbatte in una curiosa valigia, appartenente ad un’ex paziente. Con alcune difficoltà, riesce ad aprirla, scoprendo che non contiene – come le altre – effetti personali, ma: un acquerello senza cornice firmato da Mille McCarthy, una tutina da neonato, un pupazzetto di stoffa e un biglietto dove è scritta una frase a dir poco sbalorditiva per Sarah, proprio perché la riguarda.

Inizia così la ricerca di quella ex paziente.

Il trattamento dei pazienti nei manicomi, tra racconto e realtà

Ellen Crosby inizia per la prima volta il suo incarico da infermiera proprio ad Ambergate. Toccherà con mano la cruda vita condotta dai pazienti, sottoposti a supplizi ed a violente pratiche come l’elettroshock, ma proverà a migliorare la vita delle pazienti ricoverate coi suoi amorevoli modi e metodi.

Anche se si entrava ad Ambergate sani di mente, se ne usciva pazzi. Non passava giorno senza che avesse luogo un alterco, una discussione o un dramma, spesso orchestrati dal personale per divertirsi un po’.

I pazienti all’interno delle mura dei nosocomi non sono altro che numeri e non individui in carne ed ossa e con propri sentimenti. Ellen incontra anche pazienti rinchiuse ingiustamente, ad esempio per mal d’amore, piuttosto che per una malattia fisica o per aver subito un incidente.

All’epoca non esistevano psicofarmaci, pertanto i malati mentali venivano rinchiusi e sottoposti a bastonate se ritenuti pericolosi. A partire dal Novecento, furono introdotte pratiche barbariche come la terapia malarica, lo shock insulinico, la sterilizzazione forzata, l’elettroshock o addirittura l’asportazione di organi.

La gran parte dei reclusi non erano folli, erano persone che volevano esprimere qualcosa e cadevano nella follia quando questo veniva loro impedito” spiega Anna Marchitelli, che ha studiato le cartelle cliniche dell’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli.

Elettroshock

Il predetto elettroshock era una delle terapie più comunemente effettuate all’interno dei manicomi, basata sull’induzione di convulsioni nel paziente mediante passaggio di una lieve corrente elettrica attraverso il cervello. La terapia fu sviluppata e introdotta negli anni trenta dai neurologi italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini, che applicarono per la prima volta la terapia elettroconvulsivante (TEC) su un paziente con sintomi di delirio, allucinazione e depressione. La terapia funzionò ed il paziente tornò a uno stato mentale di normalità e riprese il suo lavoro, così il buon esito contribuì a far sviluppare la terapia in tutto il mondo.

La poetessa Alda Merini riporta con tali parole l’atroce ricordo di questa pratica:

In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock […] La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile […] Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra. Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo.

Secondo il Presidente della Commissione di inchiesta del Senato sul Servizio Sanitario Nazionale Ignazio Marino, il numero di strutture ospedaliere in cui si pratica la terapia con elettroshock è pari a 91 (ricerca del 2013).

Per quanto concerne il nostro Paese, bisogna ricordare la circolare del Ministero della Salute del 15 febbraio 1999: essa stabilisce che la TEC deve essere somministrata esclusivamente nei casi di “episodi depressivi gravi con sintomi psicotici e rallentamento psicomotorio“, dopo avere ottenuto il consenso informato scritto del paziente, al quale devono essere esposti i rischi ed i benefici del trattamento e le possibili alternative.

In Italia questo orientamento è stato ulteriormente statuito dalla Regione Piemonte con la Legge Regionale 14/2002.

Nascita e chiusura dei manicomi

Sin dal medioevo, gli individui considerati strani per la maggioranza della società venivano allontanati da essa, chiudendo queste persone in torri o monasteri.

Tra questi vi erano i lunatici, perché a livello socio-economico erano problematici, ma anche tantissime donne ritenute dai mariti o dai padri (i loro “proprietari”) poco obbedienti, poiché mostravano autonomia e libere scelte diverse dai loro uomini, venivano rinchiuse. Inoltre dopo la prima guerra mondiale, vi si rinchiudevano molti reduci che registravano disturbo da stress post-traumatico.

Il primo manicomio nasce ufficialmente nel 1793, ad opera del medico francese P. Pinel, che liberò le carceri dai folli in base al principio che i malati di mente non possono essere equiparati ai delinquenti.

Negli anni ’50, la pratica dell’internamento coatto per favorire la creazione di veri e propri centri di psichiatria.

L’Italia è il primo Paese al mondo che abolì i manicomi, il primato si deve a F. Basaglia, ed alla L. 180 del 13/05/1978, la quale stabiliva – oltre alla chiusura dei manicomi – la creazione di centri di salute mentale. All’interno di essi il malato veniva ascoltato, informato ed assistito. Viene impartita l’equipe terapeutica incaricata a gestire il malato prima, durante e dopo il suo ricovero.

La norma fu applicata solo pochi mesi dopo, ossia fino all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (23 dicembre 1978). In un’intervista con Maurizio Costanzo, Basaglia affermò: «Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione.»