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Servizi psichiatrici: Basaglia e la comunità terapeutica

Servizi psichiatrici: Basaglia e la comunità terapeutica

Leggi la prima parte dell’articolo 

Le origini della Comunità Terapeutica

Franco Basaglia iniziò il lavoro nell’Ospedale Psichiatrico di Trieste nel 1971 e in questo contesto maturò la consapevolezza che l’ospedale psichiatrico non aveva alcuna valenza di cura; era anzi, di per sé, produttore di malattia. Per prendersi cura del malato era necessario ridefinire relazioni, scoprire spazi e far emergere il soggetto.

La comunità terapeutica rappresenta l’esatto opposto delle abitudini e dei principi su cui si fonda un ospedale psichiatrico. In una comunità si crea una responsabilizzazione reciproca: non ci sono ordini che cadono dall’alto, ma decisioni prese collettivamente, in riunioni settimanali a cui partecipano indistintamente pazienti, infermieri, medici. Nelle discussioni di gruppo ciascuno deve confrontarsi con tutti, uscendo dal suo isolamento. Tutte le norme e le abitudini vengono messe in discussione, criticate e modificate in modo da farle servire a promuovere la dignità e il benessere delle persone costrette a vivere nell’istituzione,

La Comunità terapeutica consente la comunicazione più ampia e libera. Ognuno può essere veramente se stesso riconquistando la dignità di persona, può confrontarsi con i propri problemi e con quelli degli altri. Il malato è quindi meno solo con le sue angosce, può parlare liberamente con gli altri imparando che spesso si tratta di angosce comuni a tutti.

Obiettivi alla base della comunità terapeutica

Se all’inizio la comunità terapeutica poteva essere considerata solo il mezzo per rendere più umano l’ospedale psichiatrico, gradualmente esso si trasforma in uno strumento di critica sempre più incisiva dell’intero sistema della psichiatria.

Il modello si basava sulla necessità di cominciare a prendersi cura delle persone con patologie mentali, isolate da tutti. Il sistema psichiatrico si è sviluppato proprio perché è un compito da assolvere che preferiamo delegare ad altri. Sosteneva Basaglia che un cambiamento radicale è impossibile in un sistema che trasforma i soggetti in pazienti psichiatrici e solo quando si sarà in grado di fornire strutture alternative nelle quali ci si presta aiuto reciprocamente sarà possibile spezzare il ciclo con cui si priva queste persone della loro umanità e se ne allontana per paura.

L’ospedale cessa di essere concepito come istituzione totale in cui il malato trova un rifugio dal mondo ponendosi nella posizione passiva di oggetto delle cure mediche per trasformarsi in una comunità che accoglie. Il soggetto ora partecipa alla propria cura, così come alla vita dell’istituzione.

Il malato psichico che soffre di disturbi nella relazione con gli altri non può essere curato da un’istituzione che lo pone in una posizione di soggetto passivo di sapere medico come avviene per la cura di una malattia organica. L’istituzione per malati psichiatrici può diventare terapeutica solo a condizione di destabilizzarsi, di lasciare spazio alla soggettività del malato affinché trovi il suo modo particolare per ricostruire un rapporto più sostenibile con l’altro.

La comunità terapeutica diventa un luogo di accoglimento e di possibile trattamento di diverse forme di disagio radicale in cui è in gioco l’impossibilità del soggetto di trovare una collocazione all’interno della famiglia e della società.

La Comunità si prefigura come luogo alternativo rispetto a quello da cui proviene il soggetto che vi accede.

Comunità terapeutica come supporto e riparazione

La comunità incarna per il soggetto un luogo di supplenza e di riparazione rispetto a un cattivo rapporto con l’altro che ha contrassegnato l’origine.

La Comunità fornisce a tali soggetti non solo un luogo di ascolto o di elaborazione simbolica, ma anche un tetto sotto cui abitare, una quotidiana condivisione e un insieme di regole di convivenza.

Una comunità terapeutica deve essere in grado di:

  • analisi critica e serrata della società nel suo insieme e dei fattori che ricreano meccanismi di esclusione sotto diverse forme;
  • avere una costante attenzione ai diritti delle persone nel suo insieme, cioè dei suoi bisogni e dei suoi desideri, della sua sofferenza, del diritto alla dignità, del diritto di parola, di essere accettato per ciò che si è.
  • creare un lavoro di rete che non guardi alla persona come isolata dal contesto a cui applicare gli interventi clinici, educativi, assistenziali, ma considera la persona e i suoi problemi all’interno di questa rete.

Per concludere, ascoltiamo le parole di Basaglia: 

Analizzando la situazione dell’internato in un ospedale psichiatrico potremmo cominciare a dire che egli appare prima di tutto come un uomo senza diritti, soggetto al potere dell’istituto, quindi alla mercé dei delegati della società che lo ha allontanato ed escluso.

Quale può essere il valore tecnico scientifico della diagnosi clinica con la quale è stato definito al momento del ricovero? Si può parlare di diagnosi clinica obiettiva legata ai dati scientifici e concreti? O non si tratta invece di una semplice etichetta sotto la parvenza di un giudizio tecnico specialistico che nasconde, non troppo velatamente, l’esclusione del malato e, insieme, conferma e sancisce la validità del concetto di una norma da essa stabilito?

Con queste premesse il rapporto tra il malato e chi si prende cura di lui non può che essere oggettuale, nella misura in cui la comunicazione tra l’uno e l’altro avviene solo attraverso una definizione, di un’etichetta che non consente possibilità di appello. Questo modo di avvicinare la questione ci schiude davanti agli occhi una realtà rovesciata dove il problema non è più quello della malattia, ma quello della società che giudica e definisce il malato.

L’oggettivazione non è la condizione obiettiva del malato, ma risiede all’interno del rapporto tra il malato e la società che ne delega al medico la cura e la tutela“.

Il rifiuto della condizione disumana in cui si trova il malato mentale, il rifiuto del libello di oggettivazione in cui è stato lasciato non può che presentarsi strettamente legato alla messa in crisi della psichiatria.

Conclusioni

Alla base di questa trasformazione e di tutto questo discorso c’è dunque una nuova consapevolezza, ridare dignità al paziente, attraverso la comprensione delle sue difficoltà, dei suoi silenzi, delle sue paure, la comprensione della sua sofferenza, sviluppata nel corso delle sue esperienze negative e culminata in un nuovo isolamento. Alternativa dovrà essere invece costruire un nuovo spazio in cui ricreare o creare per la prima volta una nuova identità e un nuovo modo di rapportarsi. Il rapporto, la relazione con l’altro è alla base di qualsiasi esistenza. La bellezza di ogni incontro umano costella inevitabilmente la fatica del confronto, ma mai potremo sottrarci al richiamo dell’ignoto che avanza verso di noi con le sembianze dell’altro o dell’altra.

Attraverso tutto il bene e tutto il male che può provenirci dall’incontro noi veniamo plasmati, assumiamo un profilo psicologico personale; ci viene dato un volto, un nome. Nome che, nel caso di questi soggetti, forse rappresenta per la prima volta la possibilità di vedersi come persona, come essere umano, come chi, dopo tanta sofferenza, grazie all’aiuto di un essere umano che non lo giudica e non ne ha paura, può cominciare a ristrutturare la propria persona, a ricucire le ferite e a guardare al futuro con una nuova consapevolezza. Perché non è mai tardi per gridare al mondo la propria voglia di vivere, il proprio bisogno di essere accettato e di iniziare a essere considerato un individuo. E mi vengono in mente le parole della canzone di Cristicchi, Ti regalerò una rosa: “Se ti stupisci perché provo ancora un’emozione, stupisciti ancora, perché Antonio sa volare“.