L’autolesionismo definisce una pulsione volta a provocare danneggiamento, sofferenza e nocumento al Sé, alla cui base si trova una volontà di annientamento maturata nelle fasi arcaiche della vita, probabilmente a seguito di una frustrazione anaclitica reiterata, o dell’incontro con un vissuto diadico abbandonico, traumatizzante, non adeguato. In particolare, il mancato affetto nutrito dalla madre viene introiettato come un oggetto sabotante in seguito al quale si consolida un vissuto distruttivo all’indirizzo del Sé (Fonagy, 2001).
Il meccanismo è di natura prettamente difensiva: per salvare l’immagine della madre rifiutante il bambino è costretto a colpevolizzarsi, rivolgendo al Sé l’aggressività diretta ad un oggetto genitoriale assente, al fine di garantirsi la sopravvivenza psichica (Fairbairn, 1977). Rendere il corpo oggetto della propria aggressività rappresenta dunque il retaggio di un rapporto diadico non goduto, in cui le esperienze somato-viscerali, necessarie a raggiungere una consapevolezza del Sé fisico e psichico, non sono state adeguatamente costruite a causa di una vicinanza materna inadeguata, interrotta o comunque insufficiente a creare un’atmosfera sintonizzante (Fonagy, 2001; Stern, 1998).
Il bambino si è sentito sguarnito di protezione, non contenuto nelle proprie emozioni né riconosciuto nella propria identità, sia fisica sia emotiva. Non ha percepito la propria presenza nella mente della madre, e questo lo ha portato a deficit nello sviluppo della dimensione egoica, i cui presupposti trovano origine proprio nella funzionalità dello scambio intersoggettivo diadico, attraverso le microinterazioni somato-sensoriali che l’oggetto materno consente di costruire, ponendo il neonato all’interno di una capsula protettiva che definisce i confini del Sé psicosomatico (Naldi, Seminario Disagi evolutivi nell’adolescente tenuto alla Scuola di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica, C.I.PS.PS.I.A, Bologna; Anzieu, 1985).
Il ruolo espressivo del corpo
Nell’autolesionismo, il corpo costituisce e sostituisce un mezzo di espressione comunicativa, laddove la parola non può essere verbalizzata e l’emozione non può essere condensata in parola. Un dolore psichico inesprimibile si tramuta in una sofferenza fisica, dunque, nella speranza di trovare il negato riconoscimento. La capacità di espressione verbale comporta, infatti, il consolidamento di una competenza simbolizzante, di cui un’adeguata esperienza interattiva nel contesto diadico costituisce il presupposto imprescindibile.
Nel caso dell’autolesionista, è proprio la distanza dalla dimensione somatopsichica della madre ad aver procurato un deficit -prima sensoriale e in seguito affettivo- che ha fortemente penalizzato la capacità di simbolizzazione, impedendo la formazione di un linguaggio verbale in grado di esprimere il disagio con consapevolezza ed assertività.
Dunque è il corpo a parlare, con acting out inconsapevoli e incontrollabili. È il corpo ad agire ciò che la mente ha siderato, costruendo un contesto espressivo pericolosamente confusivo, in cui il dolore fisico è scambiato per un’ancora di salvezza. Questo porta a considerare un aspetto ulteriore dell’autolesionismo, nello specifico riferito alla possibilità che, al di là di un apparente pulsione auto-sabotante, in esso potrebbe celarsi un disperato tentativo di sopravvivenza, un intento autoconservativo non altrimenti rappresentabile.
Una forza istintuale che, attraverso la sperimentazione di un dolore fisico, cerca di mettersi in salvo da un dolore ancora più grande. la sofferenza fisica serve a riempire un vuoto, a ripristinare una sensazione vitale andata perduta, a ricercare un contatto affettivo altrimenti impossibile, a liberarsi del peso di una colpa inconoscibile. Ma si tratta di una soluzione illusoria: questa sorta di coping autogestito alla fine diventa infatti il problema, e ciò che veniva considerato un sollievo si trasforma in una trappola non meno pericolosa della sofferenza che l’ha generata.
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Autolesionismo: qualche dato clinico
Le condotte di auto aggressività possono avere una natura lesiva, e dunque venir attuate a mezzo di tagli, bruciature, ferite deliberatamente provocate, oppure di auto danno, e in questo caso si esprimono attraverso abitudini o comportamenti pericolosi (uso di sostanze stupefacenti, condotte disregolate). Il fine è comunque il medesimo: provocare un nocumento personale ledendo la propria integrità psicofisica, e da ciò trarre una profonda gratificazione.
Da un punto di vista clinico ne troviamo la presenza soprattutto all’interno di disturbi della personalità borderline, laddove rappresenta il simbolo di una percezione del Sé discontinua e inattendibile, ma anche di una regolazione pulsionale fortemente deficitaria. Frequente anche nella schizofrenia, laddove la sua presenza sintomatologica può risultare attribuibile al contenuto di un pensiero delirante o frammentato, in cui il Sé diviene di colpo l’oggetto da perseguitare. Inserito in un quadro depressivo esso rappresenta l’esito di un dolore insopprimibile, a sua volta derivato da un’intensa pulsione distruttiva nei riguardi del Sé.
Giovani e autolesionismo
L’autolesionismo è molto diffuso tra gli adolescenti e i giovani adulti. Recenti studi riportano come la presenza di pulsioni e atti autolesionistici sia riscontrabile anche nei ragazzi minori di 13-14 anni. In questo caso si presenta associato a depressione, stress, ansia, disturbi della condotta e abuso di sostanze (Nock et al., 2006) e a relazioni familiari disfunzionali, isolamento sociale e basso rendimento scolastico (Fliege, 2009).
Generalmente rappresenta il campanello di allarme di un disagio importante, che molto spesso può esitare in gravi effetti. Non sono rari i casi di autolesività suicidaria, intenzionale o preterintenzionale. È pertanto necessario che il contesto di riferimento – familiare, scolastico, sportivo, sociale- non ne sottovaluti la presenza con strategie di banalizzazione, attribuzione emulativa o colpevolizzazione, come: “l’ho fatto anch’io”, “alla sua età è normale”, “lo fa perché lo ha visto fare, ma gli passerà“. Ove segnalato, il gesto deve essere trattato in contesti terapeutici che siano in grado di neutralizzarne la potenzialità dannosa ripristinando equilibrio e stabilità emozionale, prima che si verifichino conseguenze irreversibili.
Spesso alla base della condotta autolesiva si colloca una richiesta di aiuto. Il grido di un dolore non visto, non riconosciuto, e per questo degenerato in illusione distruttiva. Ma in questa voglia di distruzione si nasconde, in realtà, la disperata voglia di essere salvati.