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Neuropsicologia e Responsabilità Penale: fino a che punto il cervello “giustifica”?

Neuropsicologia e Responsabilità Penale: fino a che punto il cervello “giustifica”?

Negli ultimi anni, il crescente impiego delle neuroscienze in ambito forense ha sollevato interrogativi profondi: fino a che punto un individuo è responsabile delle proprie azioni se il suo cervello è compromesso? Questo articolo esplora il confine sottile tra colpa e condizione neurologica, tra libero arbitrio e determinismo cerebrale. Attraverso una prospettiva neuropsicologica, analizzeremo il ruolo delle funzioni esecutive, della regolazione emotiva e dell’intenzionalità, mettendo in discussione i criteri tradizionali di imputabilità e colpevolezza nel diritto penale.

Nel 1966, Charles Whitman salì sulla torre dell’università del Texas ad Austin e aprì il fuoco sulla folla, uccidendo 14 persone (Eagleman, 2011). Nei giorni precedenti, aveva lasciato una nota in cui chiedeva che, dopo la sua morte, il suo cervello venisse esaminato. I medici trovarono un tumore che premeva contro l’amigdala: la sede della regolazione della paura e dell’aggressività. Da allora, una domanda inquietante ha cominciato a insinuarsi nei tribunali e nei laboratori di neuroscienze: se il cervello è compromesso, il crimine è ancora punibile allo stesso modo?

Neuropsicologia e Responsabilità Penale

La neuropsicologia, nel suo incontro con il diritto, sta cambiando il modo in cui intendiamo la colpa, la responsabilità e persino il libero arbitrio. In questo articolo proveremo a capire: quando è il cervello a sbagliare, chi è davvero il colpevole?

In questi giorni non riesco proprio a capirmi. Dovrei essere un giovane mediocre, ragionevole e intelligente. Tuttavia, ultimamente (non ricordo quando è iniziato) sono stato vittima di molti pensieri insoliti e irrazionali. 

– nota di suicidio di Charles Whitman (Eagleman, 2011).

Sono queste le frasi che rivolge Charles Whitman alla sua macchina da scrivere, componendo quella che sarà la sua nota di suicidio. Quando la polizia lo uccise, Whitman aveva già sparato a 13 persone e ne aveva ferite altre 32. La storia della sua furia omicida occupò i titoli dei giornali nazionali per tutto il giorno successivo, destando dubbi in molti amici, conoscenti. Chi era davvero Charles Whitman? E quando la polizia andò a perquisire la sua casa in cerca di indizi, la storia divenne ancora più strana: nelle prime ore del mattino del giorno della sparatoria, aveva ucciso sua madre e accoltellato a morte la moglie nel sonno (Eagleman, 2011). In aggiunta allo shock dei suoi omicidi, c’era anche un’altra sorpresa, ben più nascosta: il legame delle sue aberranti azioni con la sua personale vita ordinaria. Whitman era un Eagle Scout ed ex marine, aveva studiato ingegneria edile all’Università del Texas e aveva lavorato per un breve periodo come cassiere di banca, prestando servizio come capo scout ad Austin. Da bambino, aveva ottenuto un punteggio di 138 al test del QI di Stanford-Binet, posizionandosi al 99° percentile. Come poteva un uomo, con una vita apparentemente così appagante e normale, rendersi artefice di tali cruenti ed immotivati crimini? (Eagleman, 2011).

Casi Legali

Storie come quelle di Whitman non sono di certo inusuali: i casi legali che coinvolgono danni cerebrali si verificano sempre più spesso. Man mano che sviluppiamo tecnologie migliori per sondare il funzionamento del cervello, individuiamo più problemi e li colleghiamo più facilmente a comportamenti anomali (Eagleman, 2011).

Viene ora da chiedersi: la scoperta del tumore al cervello di Charles Whitman modifica i nostri sentimenti riguardo agli omicidi insensati che ha commesso? Influirebbe sulla sentenza che riteniamo appropriata per lui, se fosse sopravvissuto all’intervento della polizia? Il tumore modifica il grado in cui consideriamo gli omicidi “colpa sua”? Non potremmo essere altrettanto noi sfortunati a sviluppare una condizione neurologica tale da perdere il controllo sul nostro comportamento? D’altra parte, non sarebbe pericoloso concludere che un danno cerebrale possa rendere le persone esenti da colpa e innocenti per i crimini commessi? Con l’evoluzione delle tecniche di indagine cel cervello umano, le giurie si trovano sempre più spesso a dover affrontare questo tipo di domande. Quando un criminale si trova davanti al tribunale, oggi il sistema legale vuole sapere se è o meno colpevole, e allora viene spontaneo chiedersi: è stata colpa della sua persona o della sua biologia? (Eagleman, 2011).

Il Determinismo Neurobiologico

Il determinismo neurobiologico sostiene che tutti gli individui, compresi i criminali, non siano realmente responsabili delle proprie azioni, poiché il loro comportamento è interamente determinato dalla biologia del cervello. Ne consegue che la percezione di possedere una libertà di scelta sarebbe, sebbene utile e funzionale, soltanto un’illusione (Urbaniok et al., 2011). Comportamenti violenti, quindi, possono essere ricondotti a disfunzioni cerebrali precoci — come malformazioni congenite (disgenesie), lesioni della corteccia orbitofrontale, oppure alterazioni prenatali o postnatali dei meccanismi cerebrali inibitori (Roth, 2004).

Da ciò deriva un paradosso della colpevolezza: più grave è il reato e il senso morale di colpa, più evidente appare la costrizione psicologica che avrebbe guidato l’autore del crimine (Roth, 2004). Roth propone quindi di abbandonare il principio di colpevolezza morale su cui si basa il diritto penale tradizionale, suggerendo invece di orientare il sistema giuridico e penale verso misure correttive per i soggetti recuperabili e verso la protezione della società nei confronti di quelli non riformabili (Roth, 2003).

Questa posizione sembra riprendere le idee della criminologia positivista degli anni Cinquanta, secondo cui il comportamento criminale non deriverebbe da una scelta libera e razionale dell’individuo, ma sarebbe sempre il prodotto passivo di fattori esterni, come quelli biologici o sociali.

Disturbi nell’Elaborazione delle Emozioni e Comportamento Aggressivo

Diversi autori sostengono che l’aggressività impulsiva sia il risultato di una regolazione difettosa delle emozioni. In condizioni normali, gli individui sono generalmente in grado di controllare le emozioni negative e di gestire segnali ambientali avversi. Le persone violente, invece, sembrano presentare un malfunzionamento nei circuiti cerebrali responsabili del comportamento adattivo (Bufkin & Luttrell, 2005; Davidson, Putnam & Larson, 2000).

Esistono anche evidenze secondo cui alcune varianti genetiche possono destabilizzare i circuiti neuronali, compromettendo la regolazione emotiva e la valutazione sociale, aumentando così la probabilità di comportamenti impulsivi e aggressivi (Buckholtz & Meyer-Lindenberg, 2008).

Uno studio condotto da Müller et al. (2003), tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI), ha analizzato l’attività cerebrale di sei psicopatici esposti a immagini con contenuti emotivi. Le immagini a contenuto sia negativo che positivo hanno generato variazioni marcate — sia aumenti che riduzioni — dell’attività cerebrale in aree cruciali per l’elaborazione delle emozioni, rispetto ai soggetti di controllo. Queste alterazioni sono state interpretate come segni di disregolazione e di connettività funzionale compromessa tra le regioni cerebrali coinvolte nei processi emotivi (Müller et al., 2003).

Le Basi Neurobiologiche nella Regolazione del Comportamento

L’aggressività può essere spiegata come uno squilibrio tra il controllo “dall’alto verso il basso” (o top-down) — cioè i “freni” esercitati dalla corteccia orbitofrontale e dalla corteccia cingolata anteriore, responsabili di adattare il comportamento ai segnali sociali e di prevedere ricompense o punizioni — e le spinte “dal basso verso l’alto” (o bottom-up), ovvero gli impulsi e segnali provenienti da aree limbiche come l’amigdala e l’insula (Siever, 2008).

Uno stimolo emotivamente provocatorio o sfidante, che innesca un evento aggressivo, viene inizialmente elaborato dai centri sensoriali visivi, uditivi e di altri sensi. In questa fase, eventuali deficit sensoriali — come problemi di vista o udito — o distorsioni causate da droghe, alcol o disturbi metabolici secondari a malattie, possono portare a percezioni incomplete o distorte dello stimolo, aumentando la probabilità che esso venga interpretato come minaccioso o provocatorio.

Dopo questa prima elaborazione sensoriale, la valutazione dello stimolo avviene nei centri di integrazione visiva e uditiva dedicati all’elaborazione delle informazioni sociali, e infine nelle aree associative superiori della corteccia prefrontale, temporale e parietale. Questi primi processi possono essere influenzati da fattori culturali e sociali, che modulano la percezione della provocazione; inoltre, possono essere alterati da deficit cognitivi nell’elaborazione delle informazioni, favorendo tendenze paranoiche o idee di riferimento, o condizionati da schemi negativi derivanti da stress o traumi vissuti durante lo sviluppo, che riducono la fiducia negli altri.

Infine, l’elaborazione di questi stimoli, in relazione alle esperienze emotive passate immagazzinate nell’amigdala e in altre regioni limbiche, attiva la spinta all’azione aggressiva, mentre la corteccia orbitofrontale e il giro cingolato anteriore modulano “dall’alto” queste risposte emotive e comportamentali, svolgendo la funzione di inibitori per evitare comportamenti con conseguenze negative.

Il Ruolo Cruciale delle Neuroscienze

Le neuroscienze certamente hanno quindi chiarito il ruolo cruciale di strutture come la corteccia prefrontale, il sistema limbico e l’amigdala nel regolare impulsi, emozioni e capacità di pianificazione, fornendo nuovi strumenti per comprendere i comportamenti devianti. Tuttavia, la loro applicazione nel contesto forense si scontra con limiti tecnici e interpretativi: la capacità di intendere e di volere non può essere ridotta a un semplice dato neurobiologico, ma deve essere valutata in un quadro complesso che tenga conto anche della storia personale, sociale e culturale dell’individuo.

Inoltre, occorre cautela nel non cadere nel determinismo neurobiologico, che rischierebbe di trasformare la scienza in un alibi, diluendo la nozione stessa di libero arbitrio e di responsabilità personale. È quindi necessario un dialogo interdisciplinare che coinvolga neuroscienziati, giuristi e filosofi, per garantire un uso etico, rigoroso e responsabile delle conoscenze neuropsicologiche in ambito giuridico.

Solo così potremo affrontare le sfide di un mondo in cui la linea tra cervello e responsabilità si fa sempre più sottile, preservando al contempo i valori fondamentali della giustizia e della dignità umana.