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La multidimensionalità del sistema penale

La multidimensionalità del sistema penale

In qualità di assistente sociale dell’amministrazione penitenziaria (oggi DGMC), ove lavoro sin dal 2001, ritengo che sia interessante rappresentare il sistema penitenziario dalla parte di chi vi opera, esprimere il punto di vista dei professionisti.

Lo stesso ragionamento deve aver fatto lo storico Christian De Vito, che nel 2009 nel libro «Camosci e girachiavi: Storia del carcere in Italia» ha raccontato la storia delle istituzioni penitenziarie italiane prelevando atti dall’Archivio centrale dello Stato, ma anche fonti non ufficiali e testimonianze dei detenuti che erano stati in carcere dal periodo fascista ai giorni nostri. In altre parole, ha raccontato la storia dalla parte dei detenuti.

Quando si parla di pene siamo abituati a pensare al carcere: la rappresentazione dell’uomo medio, estraneo agli ambienti penali e penitenziari, è orientata ai detenuti, alla Magistratura e alle forze dell’ordine. A quasi cinquant’anni dall’entrata in vigore della Legge Penitenziaria, la n. 354 del 1975, l’idea che le pene possano essere diverse dalla detenzione fatica ancora ad emergere. Eppure, da allora il sistema dell’esecuzione penale si è profondamente modificato tanto che alcuni giuristi parlano di metamorfosi.

Al di fuori dei contesti accademici si è radicata l’idea che il sistema dell’amministrazione penitenziaria coinvolga soltanto due attori, il giudice e il condannato. In realtà gli stakeholders sono tanti: i giudici (della cognizione, dell’esecuzione e della sorveglianza), i garanti, le istituzioni politiche, i condannati, le famiglie dei condannati, le Forze dell’Ordine, il personale dell’amministrazione, le organizzazioni sindacali, le vittime dei reati, le famiglie delle vittime, la società libera. Questa rappresentazione è indicativa di quanto il sistema sia complesso ed articolato: tutti questi soggetti sono componenti essenziali, nessuno escluso.

Il modello sistemico-relazionale

Non ho usato casualmente l’uso del termine sistema. Durante gli studi universitari, nel corso di metodi e tecniche del servizio sociale, fui letteralmente folgorata da una lezione sul modello sistemico-relazionale, elaborato negli anni Sessanta dagli esponenti della Scuola di Palo Alto del Mental Research Institute in California (Ludwig von Bertalanffy, Paul Watzlawick, Gregory Bateson, Donald Deavila Jackson, Jay Haley) e facente capo alla teoria generale dei sistemi di von Bertalanffy, secondo la quale per “sistema” si intende un insieme di elementi e di regole che ne determinano l’interazione, per cui un cambiamento anche in uno solo degli elementi implica un cambiamento su tutti.

Un sistema, dunque, è caratterizzato da due o più oggetti che interagiscono reciprocamente secondo un modello di circolarità in base al quale ciascuno condiziona l’altro e, a sua volta, è condizionato da esso (L. von Bertalanffy 1968). Pertanto, il significato di ogni singola parte del sistema non va ricercato in essa stessa, ma nel sistema di relazioni in cui è inserita, dove la caratteristica fondamentale è l’interazione tra le parti e la reciprocità dell’interazione.

In sintesi, il paradigma sistemico-relazionale è basato sull’osservazione dell’individuo posto al centro del sistema di relazioni in cui vive: in particolare si osserva la natura delle interazioni tra questi e le persone significative dei suoi contesti di vita, per cui qualsiasi sintomo si verifichi, esso si ripercuote su tutti i membri. Ciò significa che il sistema si comporta come un tutto indivisibile ed i singoli fattori non possono variare senza poi condizionare il tutto. In altre parole, se il soggetto manifesta un problema, questo non è considerato un fatto individuale, ma una criticità nel funzionamento delle sue relazioni, i cui effetti si ripercuotono su tutti. Per usare una metafora il professore ricorreva ad una frase della teoria del caos, sviluppata negli anni Sessanta da Edward Lorenz: “il battito delle ali di una farfalla a Pechino è in grado di provocare un uragano a New York.”

Ecco cosa intendo per sistema. Un insieme di elementi interconnessi tra loro per cui una impercettibile variazione in uno di essi determina variazioni, anche significative, in tutte le altre.

Un nuovo paradigma culturale del sistema penale

Nel complesso sistema penale tutti gli stakeholder sono componenti essenziali ed interconnesse tra loro. È, tuttavia, necessaria l’affermazione di un nuovo paradigma culturale capace di realizzare un bilanciamento tra tutte le componenti e di garantire a tutti gli stakeholder del sistema giustizia il riconoscimento delle garanzie costituzionali, in primis della dignità.

Il principio costituzionale di solidarietà prevede un obbligo preciso in capo allo Stato, quello di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo della personalità della persona e in tale prospettiva la tutela deve rivolgersi a tutte le componenti, nessuno escluso.

La risocializzazione, o meglio la ri-legalizzazione (M. Ruotolo), dev’esserci a patto che davvero sia ricucito il legame che si è rotto e questa operazione richiede la volontà di tutti gli stakeholder coinvolti nel sistema giustizia: delle Istituzioni, del colpevole, delle vittime, della comunità.

In un’ottica sistemico-relazionale, di circolarità e multidimensionalità il problema penitenziario dovrebbe rientrare tra le disfunzioni della società nel suo complesso, le politiche penali non dovrebbero essere sganciate da quelle sociali, terreno fertile ove attingere gli strumenti per la prevenzione del crimine e per le tutele dei diritti.

La questione penitenziaria è un argomento multidisciplinare e onnicomprensivo, che riguarda le politiche di giustizia sociale, le politiche di giustizia penale e le politiche di Welfare, nella prospettiva che l’evento reato non si risolve soltanto nel settore penale.

La pena deve tendere a ricostruire il legame sociale

In una riorganizzazione complessiva del sistema giustizia il significato della pena dovrebbe andare oltre la retribuzione e la rieducazione e tendere a ricostruire il legame sociale; una rivisitazione del sistema penale in cui tutti gli attori coinvolti, il reo, la vittima, il giudice, lo Stato, gli operatori penitenziari siano posti sullo stesso livello, come già accade nell’edificio della Corte costituzionale sudafricana, ove la giustizia penale è basata su tre principi: anziché la vendetta la comprensione; anziché la ritorsione l’ubuntu, l’interrelazione, il legame necessario con gli altri; anziché il principio della vittimizzazione il principio della riparazione.

Occorre approcciarsi in modo multidisciplinare nella dimensione dell’esecuzione penale avvalendosi non soltanto del diritto penitenziario, ma altresì della vittimologia, dell’antropologia criminale, delle politiche penali e sociali, della psicologia giudiziaria e percorrere la strada che tende all’affermazione del paradigma “sistema, dignità, cura”: partendo dalla consapevolezza che tutti siamo parte dello stesso sistema, è necessario tutelare la dignità di tutti e prendersi cura di tutti.

La lettera di Papa Francesco

Emblematico e particolarmente suggestivo è il contenuto di una lettera di papa Francesco ai partecipanti al XIX Congresso internazionale dell’associazione internazionale di diritto penale e del III Congresso dell’associazione latino-americana di diritto penale criminologia, in cui emerge il senso della giustizia riparativa, che non consiste nel giustiziare l’aggressore ma nel rendere giustizia alla vittima. A parere del Pontefice la nostra società dovrebbe assumere come modello di riferimento la parabola del Buon Samaritano, il quale non pensa di perseguire il colpevole affinché riconosca le sue responsabilità, ma si prende cura e assiste la persona che è stata danneggiata: «nelle nostre società tendiamo a pensare che i delitti si risolvano quando si cattura e condanna il delinquente, tirando dritto dinanzi ai danni provocati o senza prestare sufficiente attenzione alla situazione in cui restano le vittime».

D’altro canto, attribuire alla pena soltanto un significato retributivo non ha alcuna utilità sociale; semmai istituzionalizza la violenza, non previene la criminalità, ingenera ulteriori danni nella società e non crea i presupposti per una reale modifica nel comportamento del condannato, il quale a sua volta diventa vittima del sistema giustizia. Considerato, peraltro, che la causa delle criminalità va ricercata in disfunzioni della società, oltre ad emettere leggi giuste occorre creare i presupposti affinché esse siano rispettate. Dunque, è necessario mettere il condannato nelle condizioni di intraprendere un percorso di cambiamento che gli consenta di «affrontare il danno causato e reimpostare la sua vita senza restare schiacciato dal peso delle sue miserie».


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