Il frenetico sviluppo della società postindustriale apre alle nuove generazioni orizzonti, universi conoscitivi e possibilità relazionali più ampi e ricchi rispetto ai modelli culturali offerti nel passato. In una situazione evolutiva di questo tipo, si pone l’esigenza di gestire l’aspetto educativo dell’espansione inarrestabile del mondo digitale ad esso connessa che, tra l’altro, si presenta come un’offerta di promesse allettanti, considerate inimmaginabili in epoche passate.
Pensieri lenti e veloci
L’accelerazione di questi processi, con l’interferenza dei social-network, ha influenzato, infatti, in modo determinante, gli stili di vita degli individui, modificandone il modo di pensare, sentire ed agire, generando una vera e propria modifica della struttura e delle funzioni neuronali, le quali, secondo le moderne teorie delle neuroscienze, presiedono alla modulazione delle emozioni (quali il piacere, la paura, ecc.) e le conseguenti scelte comportamentali.
Su questo tema, il premio Nobel 2002 Daniel Kahneman opera una separazione tra i pensieri veloci dei social-network, legati a operazioni frettolose e automatiche (senza sforzo e alcun controllo volontario) e i pensieri lenti, che prevedono la riflessione, la focalizzazione dell’attenzione, la concentrazione, la scelta di ogni agire personale: si tratta, secondo le scuole di pensiero più accreditate, di due sistemi, ambedue importanti e necessari per un corretto ed armonico sviluppo mentale.
Sulla base delle considerazioni sopra esposte, è necessario sottolineare che, purtroppo, sta prendendo forma e consistenza la preponderanza del primo sistema, spesso orientato verso comportamenti impulsivi, per cui non è facile creare un giusto dosaggio tra le due forme di pensiero, che può realizzarsi solo con un progetto educativo mirato.
Le fragilità del sistema digitale
La digitalizzazione del pianeta, che riguarda le nostre vite e quelle dei nostri figli, offre a tutti l’opportunità di esibizione in un palcoscenico personale, in cui i soggetti interessati, recitando la parte di attori, pensando di essere i veri protagonisti della scena, senza rendersi conto che, in realtà, diventano utenti che recitano una parte, in uno spettacolo in cui non prevale l’interesse e il destino del singolo, ma quello di chi manovra il gioco, secondo logiche utilitaristiche.
Le aziende impegnate nel campo digitale, infatti, non sono solitamente animate da intenti di tipo pedagogico, ma operano con la preoccupazione fondamentale, di produrre, sempre più velocemente, oggetti da consumare.
La massiccia irruzione del digitale ha aperto, sicuramente, un’affascinante finestra cognitiva sul mondo che, superando barriere e confini nazionali, nonché la vicinanza fisica dei legami interpersonali, consente forme di comunicazione a distanza che prima erano inesistenti.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana, che ribalta il principio tradizionalmente consolidato secondo il quale la specie umana, portata naturalmente alla cooperazione, nel passato era costruita su un modello prettamente fisico dell’incontro faccia a faccia, dal momento che non c’erano possibilità diverse di comunicazione, se non quelle realizzate con la presenza fisica del corpo.
Lo psicologo americano Michael Argyle, vissuto mezzo secolo fa, nel suo libro “Il corpo e il suo linguaggio”, afferma che “l’uso corretto del linguaggio non verbale è una parte essenziale della capacità sociale e di specifiche competenze sociali”.
Questa possibilità non si realizza, invece, se parliamo utilizzando prevalentemente uno strumento tecnologico, in cui la connessione non prevede alcuna corrente affettiva ed empatica e in cui, spesso, come afferma Domenico Barillà, “non spuntano gemme, non sbocciano fiori, non maturano frutti”.
La lontananza offre, infatti, uno spazio d’azione standard allargato ma fisso, valido per tutte le relazioni, che sgambetta, di fatto, la comunicazione socializzata, rendendola, nei casi più gravi, un’esperienza disumanizzata, fredda e senz’anima, centrata sull’ipertrofia dell’io.
Prevale, così, la chiusura nel proprio ego, in cui ogni singola persona parla alle altre persone in modo interessato, per avere un’importante affermazione sociale e lavorativa, rispondendo al bisogno/aspirazione di essere riconosciuta, considerata e apprezzata. In definitiva, di diventare popolare.
Altre fragilità della deformazione telematica riguardano:
- L’assunzione di un’accettazione acritica dei prodotti, svincolati da una riflessione profonda;
- La totale e prolungata immersione, soprattutto dei bambini, dei ragazzi e dei giovani, nel mondo virtuale, con il conseguente allentamento dei contatti diretti con la realtà e con le esperienze calde e di prima mano;
- L’eccesso di intrusività e di interferenza dei social network, con precisi ricettari per esaltare il bisogno di protagonismo e di esibizione, che comporta un’adeguata ricompensa di buone dosi di dopamina, facendoci avvertire sensazioni di piacere, ma generando, nei casi più gravi, fenomeni di dipendenza,
- La necessità di diffondere le immagini, anche quelle relative a comportamenti socialmente censurabili, come quelli, per esempio, del cyberbullismo.
- L’esaltazione, a livello scolastico, della filosofia digitale, fino a farla diventare un vero e proprio festival della competenza digitale che, da mezzo di apprendimento, si trasforma in un Traguardo Finale di Sviluppo.
- La logica della macchina digitale che può rendere il tempo di vita sempre più meccanizzato e cronometrato, con la conseguenza che le persone sono sempre più stressate e intossicate dall’ossessione del consumismo e, in generale, dall’esigenza di “correre” sempre più velocemente.
L’intervento educativo come risoluzione degli aspetti problematici legati alla cultura digitale
I fenomeni sopra citati non possono essere risolti da genitori e insegnanti con un lamento sterile o con una lotta totale e decisa allo sviluppo dell’era digitale, ma solo con un intervento mirato a valorizzarne le potenzialità.
Come tutte le rivoluzioni che si sono realizzate sul piano scientifico e culturale, infatti, il progresso diventa incontrollabile se si usano solo pratiche oppositive (come il divieto per i ragazzi di utilizzare lo smartphone e di giocare ai videogame) e non si predispongono gli strumenti educativi adeguati, per cui, inesorabilmente, la sfida risulta impari e, sicuramente, perdente.
Non si tratta, dunque, di demonizzare la rete e i social network come un nemico da abbattere, contrastandoli con paure, ansie e proibizioni, ma di educare le nuove generazioni a saper gestire, con consapevolezza e spirito critico, la quantità e la qualità dei processi attivati dai vari oggetti digitali.
A questo proposito, è stato ampiamente dimostrato che, dove si è attivato un valido presidio educativo e affettivo di supporto ai vari fenomeni connessi con la telematica, non si sono verificate situazioni di dipendenza né effetti deformanti, ma influenze e modificazioni comportamentali che non sono solo rimaste entro limiti della tollerabilità, ma hanno anzi influito, in modo positivo, sul processo di crescita, maturazione e sviluppo dei bambini e dei ragazzi.
Non servono, a questo punto, da parte degli adulti riferimenti nostalgici a situazioni e scenari del passato (tra l’altro non replicabili) né può essere, quindi, utile l’auspicio di un ritorno a modelli culturali, considerati migliori di quelli attuali, ma che risultano non più credibili e comprensibili per i bambini e i ragazzi digitali di oggi.
A questo punto, la valida strategia da seguire è quella in cui l’educatore deve spostare l’attenzione dall’asse dell’istruzione (conoscenze e abilità), presentata dagli schermi offerti dalla tecnologia, di cui, spesso, è egli stesso vittima, all’asse dell’educazione (competenze per la vita), utilizzando la filosofia di un’etica informatica al servizio dei bambini e dei giovani e non viceversa.
La scuola, in questo scenario ambientale, non può rimanere indietro, né mostrarsi estranea od ostile ai profondi processi sociali di trasformazione in atto, senza trascurare, però, la ricchezza culturale e il patrimonio dei saperi e delle discipline che sono storicamente collegate con la crescita umana di ogni persona.
È importante, a tale proposito, che l’azione educativa sia orientata a concepire gli strumenti digitali non come strumenti di dominio, ma come strumenti di libertà che consentano di realizzare un umanesimo rigenerato (Edgard Morin).
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