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La solitudine: da stato mentale negativo a risorsa personale

La solitudine: da stato mentale negativo a risorsa personale

Esiste un aforisma di Jean Paul Sartre che valorizza l’aspetto sano della solitudine, ovvero cita: “Se sei triste quando dei solo, probabilmente sei in cattiva compagnia”.

Non c’è cosa di più veritiera di questa affermazione, in quanto mette in luce la base da cui partire per avere, invece, ottimi rapporti sociali. Se non riusciamo a godere dello stare con noi stessi, come possiamo arrivare a coltivare relazioni più ampie, che sappiano coinvolgere altrui animi, mondi personali e pensieri?

La solitudine come connessione con se stessi

Anche la nota psicologa Serenella Salomoni dice testualmente: “Vivere [la solitudine] in modo sano ci consente di entrare dentro noi stessi e di comprendere gli aspetti importanti del nostro essere profondo”. Continua: “Se vissuta bene, quindi, la solitudine è un tempo costruttivo e una preziosa occasione di crescita personale, non da ultimo è libertà”.

Libertà di godere della nostra presenza ed essenza profonda. Libertà personale di prendersi dei momenti, anche lunghi, di riflessione su di noi; chiarimento sui nostri pensieri, dubbi, dedica a noi per “schiarirci le idee”, cercare di rimettere in ordine la mente, sempre piena, riordinare le priorità e cancellare ciò che inutilmente ci affligge.

La solitudine è un regalo che ognuno dovrebbe fare a se stesso, una risorsa fondamentale per un sano vissuto, che sappia far fronte ai nostri periodi più cupi. Delle pause di vita che ci diano carica e ci facciano ripartire come nuovi.

Non bisogna percepire, quindi, lo stato di solitudine, in una prospettiva insana, come spesso accade e come abbiamo imparato a identificarlo nella società.

Non si tratta, infatti, di uno stato mentale negativo associato al disagio, senso di abbandono, tristezza, vuoto e sofferenza. Questa, sebbene comune, è una percezione alquanto errata dello stare soli, perché malamente interpretata come un “essere soli”!

Il piacere della solitudine nelle persone introverse

Jennifer Granneman è una autrice che, con il suo testo La Vita Segreta degli Introversi, dà occasione a tutti gli introversi di rispecchiarsi nelle sue luminosissime e potenti parole, riflette sul tema e la sua estrema, chiarissima sensibilità emerge in ogni sua frase. Un libro che finalmente non fa sentire la persona introversa come sbagliata, dà una nuova prospettiva al lettore, facendolo sentire capito, compreso ed accolto nella sua particolarissima forma in un mondo che vive spesso distante dal mondo interiore dell’introverso, a cui per l’appunto piace assaporare lo stato mentale positivo della solitudine, il piacere del tempo in solitudine, dello “stare da soli”.

I momenti tranquilli per gli introversi non sono tempi morti, non è un tempo perso. Anzi, sono vissuti esattamente al contrario, sono da assaporare e aiutano a far ritrovare la propria identità, persa spesso nel caos frenetico della quotidianità. La solitudine può effettivamente aiutare a migliore la vita ed il carattere. Con la riflessione silenziosa si arriva ad elaborare problemi e pensieri, ci si libera dalle oppressioni quotidiane e il cervello ne gode appieno, rigenerandosi, attraverso la concentrazione sulle vere questioni vitali, quelle che realmente contano.

La solitudine è davvero importante per le persone introverse, come afferma sempre la Granneman. Senza quegli autentici momenti di riservatezza, chi è introverso si sentirebbe logorato e appesantito, stanco e privo di energie.

Esattamente così: la solitudine serve per rigenerare energie, donare più forza e vitalità a chi, altrimenti, non potrebbe riservare momenti di allegria e spensieratezza alle persone più care intorno. La quiete è un “riarmo” di se stessi, ci si ritira per qualche tempo per uscirne poi più forti, rinnovati e liberi di prima; da non confondere con l’isolamento dovuto allo stato “asociale”: la non socialità.

Sindrome di Hikikomori (dal giapponese “stare in disparte”)

Se esiste una solitudine salvifica e benefica, dall’altro lato non possiamo assolutamente confonderla con un isolamento “autolesionista”. Sempre la psicologa Serenella Salomoni afferma, infatti, che questo tipo di solitudine è stata registrata anche in Italia, ma ha la sua origine in Giappone e viene associata totalmente ad una patologia, una sindrome che caratterizza soggetti che non escono, chiusi e barricati in casa, in cameretta addirittura, perché il mondo li spaventa letteralmente. L’esempio estremo di solitudine denominato per l’appunto, dal giapponese, Hikikomori.

Anche Jennifer Granneman ne parla nel suo testo (vedi sopra) e sottolinea la particolare paralisi sociale che colpisce questi soggetti, molto spesso di giovane età, che hanno addirittura interrotto scuola e lavoro, con i relativi rapporti instaurati in questi due contesti. Una totale autoreclusione, isolamento causato dalla paura dell’altro e dai molti timori sociali.


La sindrome di hikikomori è al centro del seminario online HIKIKOMORI – Conoscere, Prevenire e Affrontare, che ne illustra origini, caratteristiche ed epidemiologia, approfondendone i possibili fattori di rischio (familiari, personali e sociali) e le strategie di prevenzione e intervento.


Questa forma patologica, quindi, va distinta dal comportamento di chi, come gli introversi, assapora la solitudine, prendendo solo una pausa dal mondo per pochissimi giorni o appena qualche ora, per poi riprendersi, ricaricarsi e tornare tra le persone e la routine quotidiana, fatta di lavoro, scuole, parenti, amici e tanto altro ancora.