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Franco Basaglia: cent’anni e il futuro incerto della sua eredità monumentale

Franco Basaglia: cent’anni e il futuro incerto della sua eredità monumentale

Cent’anni fa vedeva la luce uno psichiatra che ha rivoluzionato radicalmente la salute mentale italiana, Franco Basaglia, ridefinendo il concetto di malato e malattia mentale. Tuttavia, la sua preziosa eredità sembra oggi caduta nell’oblio.

Un altro orizzonte: Franco Basaglia e la sua eredità rivoluzionaria

Mario Novello, psichiatra di spicco, afferma che Franco Basaglia ha incarnato l’idea che “un altro mondo era possibile“. Questo illustre psichiatra, che avrebbe compiuto cent’anni l’11 marzo 2024, ha lasciato un’impronta indelebile nonostante la sua vita sia stata interrotta prematuramente a soli 56 anni. Il suo impatto è stato monumentale: ha riformato radicalmente la salute mentale italiana e ha cambiato il modo in cui comprendiamo il concetto di malattia mentale e il trattamento del malato.

Ricordato principalmente per la sua incisiva azione nella “chiusura dei manicomi”, una diretta conseguenza della legge 180, comunemente nota come “legge Basaglia”, Franco Basaglia fu non solo uno stimato medico psichiatra, ma anche un intellettuale di grande levatura.

La sua visione unica ha permesso di riconoscere la distorsione della realtà entro le mura dei manicomi, spiega Novello, autore insieme a Giovanna Gallio del libro “Franco Basaglia e la psichiatria fenomenologica“, che ha collaborato a lungo con Basaglia. Questa visione, radicata nella cultura europea della prima metà del Novecento e ispirata da figure come Karl Jaspers, Eugéne Minkowski e Ludwig Binswanger, è stata poi tradotta in pratica psichiatrica.

Chi era Basaglia

La narrativa comune spesso ritrae Basaglia come un eroe solitario e controcorrente, ma Novello sottolinea che Basaglia non è mai stato isolato, neanche intellettualmente. Egli si inserì in una visione condivisa e radicata nell’Europa del suo tempo. Basaglia era non solo un visionario, ma anche un genio capace di trasformare il pensiero in azione.

Nato nel 1924 a Venezia, Basaglia studiò medicina a Padova, laureandosi con lode. La sua ferma opposizione al regime fascista lo portò in carcere durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana, quando era ancora uno studente. Questa esperienza influenzò profondamente la sua visione del manicomio. Dopo la guerra, si specializzò in malattie nervose e mentali a Padova, mantenendo un vivido interesse per la filosofia. Questo, secondo molti, compromise la sua carriera accademica. Tuttavia, invece di seguire una carriera accademica, accettò la posizione di direttore al manicomio di Gorizia.

Il resto è storia

L’esperienza di Basaglia nel manicomio di Gorizia fu rivoluzionaria. “All’inizio, voleva solo scappare,” racconta Novello. “Ma poi, per onestà intellettuale e senso di responsabilità, decise di rimanere.” Basaglia rifiutò di essere un carceriere: non poteva considerare un ospedale un luogo in cui i pazienti erano privati della libertà e privati dei diritti umani. Durante i suoi quasi dieci anni a Gorizia, Basaglia migliorò le condizioni di vita dei pazienti, restituendo loro la dignità umana, abolendo le pratiche di contenimento e introducendo incontri assembleari tra pazienti e personale medico. Basaglia “aprì” il manicomio, integrandolo nella comunità e consentendo ai familiari e ai visitatori di accedere liberamente.

Tuttavia, Basaglia presto capì che aprire il manicomio non era abbastanza: doveva essere chiuso e smantellato. Alla fine degli anni ’60, lasciò Gorizia e trascorse del tempo negli Stati Uniti, dove comprese quali sarebbero dovute essere le prospettive future per la salute mentale. Tornato in Italia, arrivò a Trieste con un piano ambizioso.

Michele Zanetti, allora presidente democristiano della provincia di Trieste, gli diede carta bianca. Negli anni ’70, Basaglia fu affiancato da un gruppo eclettico di professionisti, intellettuali e artisti, tutti uniti nel loro sforzo comune. A Trieste, Basaglia fu sostenuto da una rete di collaboratori e operatori sanitari. “C’era un senso di partecipazione in ogni aspetto del lavoro quotidiano,” racconta Novello. “Basaglia aveva anche un grande acume politico.” Nel 1978, la legge 180 fu approvata, segnando la fine dei manicomi in Italia. Il manicomio di Trieste fu il primo a chiudere nel 1977, mentre l’ultimo, 20 anni dopo, fu chiuso proprio da Mario Novello, a Udine. Basaglia morì a Roma nel 1980, solo due anni dopo l’approvazione della legge e l’istituzione del servizio sanitario nazionale, per un tumore al cervello.

Che cosa rimane oggi dell’opera di Basaglia?

“La salute mentale non riceve ancora l’attenzione che merita dall’amministrazione pubblica,” spiega Mario Colucci, psichiatra del Dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria giuliano isontina e autore del libro “Franco Basaglia” con Pierangelo Di Vittorio. “Gli investimenti sono insufficienti. Mentre alcuni paesi europei dedicano dal 9 al 15% della spesa sanitaria alla salute mentale, in Italia si arriva a malapena al 4%, se non meno,” continua Colucci.

Il problema non è solo di risorse finanziarie. L’organizzazione dei servizi di salute mentale in Italia è disomogenea, e spesso si riduce a un’esercitazione di pura managerialità. La visione di Basaglia è ancora rilevante oggi, e la sua eredità continua a ispirare coloro che lottano per un sistema di salute mentale più umano e inclusivo.

Il pensiero dietro all’uomo

La lezione di Basaglia, che ha posto la persona, il suo benessere e la sua salute al centro, sembra essere stata dimenticata. “Basaglia ha sempre voluto unire l’azione e la riflessione,” spiega Colucci, sottolineando i fondamenti filosofici. “Ma oggi, nei corsi universitari, nessuno lo conosce, non viene studiato”. Colucci, che lavora nel contesto del Friuli-Venezia Giulia, una delle poche realtà dove la riforma è stata implementata almeno in parte, spiega che nella maggior parte del paese “non c’è una cultura di prossimità e presa in carico della situazione all’interno del contesto. Non si presta attenzione ai determinanti della salute: la casa, il lavoro, la socializzazione. Non si può trattare solo la malattia; le persone devono avere una casa, un lavoro, quindi un reddito e legami sociali”.

Nei nostri giorni

Nel 2024, le criticità persistono. Un altro argomento rilevante riguarda gli operatori privati, che in alcune regioni, come il Lazio, spesso gestiscono la salute mentale per conto dell’amministrazione pubblica, con risultati disastrosi. Ludovica Jona, giornalista, ha coordinato l’inchiesta “The Business of Madness”, realizzata con il contributo di Journalism Fund Europe, anche narrata nel podcast “Tutta colpa di Basaglia”.

“Nell’inchiesta emerge che a 45 anni dall’approvazione della legge 180, c’è il rischio di re-istituzionalizzazione attraverso strutture residenziali private, convenzionate con le regioni,” spiega Jona. “Organizzazioni come la SIEP (Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica), l’UNASAM (Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale), e enti come Caritas e Sant’Egidio, insieme a un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, denunciano che una parte significativa di queste strutture, pur definite ‘riabilitative’ sulla carta, non lavorano per reinserire i pazienti nella società, ma diventano sempre più ‘case per la vita’ da cui i malati non possono uscire liberamente”. Secondo Jona, la radice di questo problema risiede nell’indebolimento dei Centri di Salute Mentale in molte regioni. “Dove i servizi territoriali funzionano bene, come in Friuli-Venezia Giulia, dove ci sono servizi attivi 24 ore su 24, non ci sono residenze psichiatriche convenzionate”.

Dalla parte dei migranti

Un collegamento forse non immediato con la riforma basagliana si trova anche nella gestione della salute mentale dei migranti. Anche in questo caso, la città di Trieste riveste un ruolo cruciale: dove quarant’anni fa si restituiva dignità e cittadinanza ai malati mentali, molti dei quali erano esuli dalla Jugoslavia, oggi ci sono realtà, come l’ICS – Consorzio Italiano di Solidarietà, che si occupano dell’accoglienza dei migranti lungo la rotta balcanica, seguendo uno spirito affine a quello di Basaglia. La salute mentale è un tema centrale per i migranti: coloro che attraversano la rotta balcanica spesso hanno subito violenza, soprusi e si trovano in situazioni di grande incertezza, che influiscono pesantemente sulla loro salute mentale, anche se questo aspetto viene spesso trascurato.

Il modello di accoglienza proposto a Trieste si diffonde sul territorio, contrario all’istituzionalizzazione. Giacomo Bonetti, uno psicologo che collabora con l’ICS, spiega: “Cerchiamo di assistere le persone nell’accesso ai servizi sanitari pubblici. I migranti richiedenti asilo hanno tutta la documentazione necessaria per uscire dall’istituzione e creare condizioni di vita quanto più normali possibile”.

Come evidenzia Bonetti, altri modelli di gestione, come i Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo e gli altri centri di accoglienza collettiva, prevedono che pochi professionisti si occupino della salute mentale di dozzine o centinaia di persone. Queste situazioni possono peggiorare il disagio dei migranti e risultare disumanizzanti.

In conclusione

In un paese che affronta sfide evidenti nella gestione della salute pubblica, può sembrare utopico attuare un modello complesso come quello proposto da Basaglia.

Colucci non è dello stesso avviso: “Dopo tanti anni da psichiatra, sono convinto che organizzare dei servizi adeguati non sia impossibile. Serve formazione culturale e buona volontà degli operatori, ma sono possibili. C’è già una buona legge, e le buone pratiche triestine non sono un’eccezione, ma una possibilità”.

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