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European Week of Sport: Attività motorio-sportiva e alunni con disabilità (Parte 1)

European Week of Sport: Attività motorio-sportiva e alunni con disabilità (Parte 1)

Il problema della disabilità costituisce, oggi, un tema centrale e discusso, soprattutto in una società contraddittoria come la nostra.

Se da una parte, infatti, si esaltano canoni estetici al limite della perfezione o modelli di efficienza basati sull’eccellenza, sulla capacità competitiva, sull’esibizione maniacale e narcisistica di immagini vincenti nel mondo del lavoro e dello sport, dall’altra si è finalmente acquisita la consapevolezza che sia necessario risolvere i problemi di quelle persone che, per difficoltà di adattamento, si trovano a vivere in un ambiente che non risponde alle loro esigenze di carattere fisico, intellettivo e socio-affettivo.

Sul fronte della disabilità sono impegnati da circa quarant’anni vari soggetti istituzionali, tra cui enti locali, scuola, centri sociali, mondo del volontariato sociale, semplici cittadini e, nell’ultimo decennio, anche le federazioni sportive impegnate nelle attività per i disabili.

Disabilità e inclusione

Negli anni ’70 gli interventi, finalizzati all’integrazione e al sostegno di disabili, sono stati affrontati nell’ottica della scolarizzazione, favorendo la loro integrazione nelle classi normali.

Successivamente, negli anni ’80 è esplosa la questione delle barriere architettoniche, che ha messo in evidenza che gli spazi costruiti, le strutture urbane, le attrezzature sportive, i mezzi di trasporto erano concepiti in base ad una persona tipo compresa tra i 20 e i 40 anni, che si trovi in una situazione di piena efficienza fisica e psichica, impedendone di fatto la piena fruizione da parte dei bambini, degli anziani e di persone con ridotte capacità motorie o con disagi psicofisici di varia natura.

A partire dagli anni ’90 si è andata profilando, in modo sempre più crescente, l’esigenza di garantire ai disabili, non soltanto un’attività medicalizzata di tipo riabilitativo – riparativo, che li renda oggetti fruitori passivi dipendenti e manipolati, ma anche e soprattutto un serie di opportunità, comprese quelle dell’attività motorio – sportiva, in grado di farli sentire soggetti vivi, impegnati in esperienze coinvolgenti, accattivanti, motivanti e stimolanti.

Questa attività ha avuto notevole espansione dagli anni 2000 ad oggi, con l’incremento delle manifestazioni sportive a tutti i livelli, grazie all’impegno della Federazione Italiana Sport Disabili (FISD), che recentemente ha assunto la nuova denominazione di Comitato Italiano Paraolimpico (CIP), ma grazie anche alla vivacità delle Associazioni sportive che operano sul territorio.

C’è da rilevare, purtroppo, che la scuola continua riservare per questa attività uno spazio esiguo e marginale, che, in qualche modo, le conferisce il significato e la funzione di un’attività aggiuntiva, complementare e accessoria nell’ambito del progetto sportivo e del percorso formativo in generale.

Eppure esiste una presa di coscienza collettiva di questo problema, che è diventato di eccezionale rilevanza, in modo particolare nelle società evolute, in cui le attività sono organizzate in modo più razionale e scientifico e richiedono, come abbiamo sottolineato, la piena efficienza di ciascun soggetto in termini di produttività, di performance e di velocità di adeguamento.


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Quali tipologie di intervento?

La domanda che ora si pone è se, a tale nuova sensibilità verso questo campo di intervento, sia seguito, su larga scala, un reale impegno istituzionale dal punto di vista progettuale e realizzativo.

Dobbiamo a questo punto chiederci: che cosa si fa per il disabile? Si riadatta, si educa, si inserisce, si integra?

Molte Istituzioni ed Enti hanno elaborato piani di intervento per la prevenzione, la cura, l’assistenza, l’integrazione delle persone con disabilità, ma le finalità enunciate sul piano dei buoni propositi spesso non hanno trovato significativi riscontri sul piano dei risultati.

Agli operatori scolastici, che hanno assistito a numerosi successi ma anche a tanti insuccessi in questo campo, non resta che porre il problema di migliorare il servizio in termini qualitativi, superando la consuetudine di procedere per semplice intuizione ed operare in una dimensione di tipo scientifico.

L’insegnante, in pratica, deve essere messo in grado dalle Istituzioni preposte, di poter intervenire in questo settore, di utilizzare e padroneggiare modalità e mezzi d’intervento specializzati, che siano mirati a ridurre il più possibile la condizione di restrizione o di “deficit” del soggetto, il quale vive una situazione di sofferenza che si caratterizza con: disturbi morfo-funzionali, ritardi di sviluppo, mancanza di interesse, mancanza di impegno, isolamento sociale, fuga dalla realtà.

È importante, quindi, dovrebbe liberarsi del cosiddetto “didattismo”. Se mi è consentito, vorrei usare la definizione provocatoria di De Landsheere (Introduzione alla ricerca in educazione, La Nuova Italia, 1976), il quale, nel rimarcare l’esigenza per l’insegnante che deve sostenere gli alunni con disabilità di usare un nuovo stile di conduzione dell’attività didattico-educativa, arriva a parlare di demaestrizzazione’.

L’azione educativa dell’alunno disabile va rivolta alla totalità della persona, non limitando l’intervento alla sfera cognitiva, ma valorizzando altre funzioni, come quella emotiva, quella socio-relazionale e, logicamente, quella motoria, le quali interagiscono continuamente e inevitabilmente con la stessa funzione intellettiva.

Di fronte a difficoltà sul piano cognitivo, in particolare per i soggetti in difficoltà nel processo di apprendimento, è proprio la dimensione motoria, unita a quella emotiva, a rappresentare il primo step per creare un clima psicologico favorevole, che può portare alla riuscita e al successo.

L’attività motoria come strumento di valore personale

Craft e Hogan (1985) individuano come elemento importante, nel processo di maturazione e sviluppo degli alunni, la possibilità di favorire, tramite l’attività motoria, i sentimenti di successo e di valor personale.

Questa finalità si ricollega a due importanti concetti teorici: il senso di efficacia personale (self-efficacy) ed il concetto di sé.

La self – efficacy rappresenta la convinzione di essere o meno capaci di mettere in atto, con esito corretto, un certo comportamento richiesto; condiziona la decisione di iniziare o meno un’attività, la quantità di sforzo impiegato ed il grado di perseveranza nell’impegno. Il concetto di sé si riferisce, invece, a ciò che, in termini affettivi, una persona sente e pensa di se stessa.

I due aspetti sono correlati, cosicché un cambiamento nell’uno può determinare un cambiamento nell’altro.

Ad esempio, Persy, Dziuban e Martin (1981) hanno riscontrato come un incremento delle capacità di resistenza ottenuto mediante un programma sistematico di corsa (3 volte alla settimana, per tre settimane) fosse in grado di determinare significativi miglioramenti nel concetto di sé di ragazzi di 10-11 anni.

Si possono enunciare molti casi di ragazzi, affetti da diverse patologie che, proprio grazie all’attività motorio-sportiva, hanno raggiunto notevoli livelli di autonomia, riguardanti soprattutto la vita di relazione e le capacità oculo-manuali, qualità importanti nello sport, ma che diventano competenze fondamentali per una vita futura autonoma anche in campo lavorativo (life-skills).

Molti soggetti del tutto dipendenti dai genitori o dagli operatori sanitari, nel corso dell’attività in palestra o in piscina hanno imparato a spogliarsi, a rivestirsi, a curare l’igiene personale, ad allacciarsi le scarpe, a raggiungere l’impianto utilizzando autonomamente i mezzi pubblici, ecc., ma hanno anche imparato a confrontarsi con gli altri in termini agonistici, a cooperare con i compagni nei giochi di squadra, e a gestire le relazioni interumane.

Il ruolo della scuola nel supportare gli alunni con disabilità

Dalle considerazioni sopra esposte ne deriva che i ragazzi con disabilità non possono operare né realizzarsi in una scuola che tiene conto del solo risultato intellettuale, tralasciando invece tutti i linguaggi non verbali.

È, dunque, un errore (o una fatica inutile) pensare che l’acquisizione delle conoscenze e delle abilità che devono diventare competenze possa venire rappresentata utilizzando soltanto il linguaggio verbale e/o il linguaggio logico-matematico.

Nel caso dell’alunno con disabilità, l’oggetto è la vera fonte del dato mentale ed esso viene costruito con i rapporti tattili e sensoriali nella sua corporeità totale. Per un bambino con handicap, infatti, i problemi di apprendimento coincidono in gran parte con i problemi dell’organizzazione dell’ambiente e della comunicazione fra lui, gli altri e l’ambiente fisico, che contiene la struttura del tempo e dello spazio.

Per questo motivo, bisogna recuperare, a livello scolastico, questa dimensione corporea delle attività, che sia finalizzata all’educazione del movimento e all’educazione attraverso il movimento.

Gli studi più recenti su questo argomento hanno dimostrato che la motricità interviene a tutti i livelli nello sviluppo, compreso quello delle funzioni conoscitive: dalla percezione agli schemi motori, da questi a quella forma di imitazione interiorizzata, che è l’immagine mentale, dalle rappresentazioni pre-operatorie alle operazioni stesse.

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