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Il fenomeno dell’abbandono sportivo precoce

Il fenomeno dell’abbandono sportivo precoce

Negli ultimi tempi è sempre più maturata la consapevolezza che l’attività motorio-sportiva, a vari livelli, offre ai bambini, ai ragazzi e ai giovani una serie di opportunità privilegiate per realizzare un percorso formativo globale. Oltre agli aspetti abilitativi e prestativi, infatti, presenta l’interesse, il bisogno/desiderio e, quindi, la motivazione primaria di un benessere psicologico e di un’autoaffermazione che coinvolge la totalità della persona nel suo modo di essere, pensare ed agire, determinando, quindi, abitudini e stili di vita che investono l’arco di tutta l’esistenza (educazione permanente).

Il nucleo fondante dell’educazione e della pratica motorio-sportiva, nelle diverse tipologie di espressione (ludica, tradizionale, agonistica, promozionale, igienico-salutistica, ricreativa, ecc.) ha, perciò, senso e significato se costruisce un “abito” mentale, che diventa patrimonio permanente di vita.

Cos’è l’abbandono sportivo precoce

Purtroppo, a dispetto della retorica imperante sul valore irrinunciabile dell’attività sportiva in tutte la fasce d’età, assistiamo oggi ad un fenomeno involutivo che, in qualche modo, interrompe un percorso formativo permanente centrato sullo sport, che dovrebbe riguardare principalmente la generalità dei bambini, dei ragazzi e dei giovani, molti dei quali, invece, non si riconoscono più in questo tipo di esperienza e decidono di abbandonare, soprattutto nel passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza.

Si parla sempre più spesso, infatti, del preoccupante fenomeno dell’abbandono sportivo precoce , definito anche col termine dropout che, sulla base ad alcuni dati diffusi recentemente, interessa la fascia di età compresa tra i 10 e i 12 anni.

Il quadro è abbastanza allarmante, se si considera che tra il 2000 e il 2011 tra i bambini di età compresa tra i 6 e i 10 anni, la pratica motorio-sportiva continuativa è aumentata invece di oltre 5 punti percentuali, passando dal 48,8% al 54,3%.

Viene, dunque, spontaneo sottolineare la situazione contrastante tra l’infanzia e l’adolescenza e domandarsi, quindi: perché il 40% dei bambini, una volta diventati adolescenti, non continuano più l’attività?

Le cause dell’abbandono sportivo

Sono molte le cause dell’abbandono sportivo, e sono certamente imputabili ad una sorta di “disaffezione acquisita per la pratica sportiva, nella quale i giovani praticanti non intravedono un orizzonte di senso per la loro vita, né una giusta occasione per realizzare uno sviluppo dinamico delle personali potenzialità.

Le varie indagini conoscitive compiute in questi ultimi anni tra gli adolescenti evidenziano che questa grave forma di “mortalità sportiva”, riguarda una serie di fattori, come:

  • la mancanza di tempo (inconciliabilità con lo studio),
  • la difficoltà a raggiungere l’impianto,
  • la noia e la mancanza di gioia,
  • il pessimo rapporto con l’istruttore,
  • problemi di salute, infortuni,
  • la consapevolezza di non essere all’altezza e di avere scarse opportunità di successo.

Ma, tra i vari motivi, è sicuramente influente la permanenza di un modello sportivo inadeguato, selezionante ed escludente, in qualche modo “espulsivo” già in tenera età, in cui predominano sollecitazioni e carichi di lavoro eccessivi di tipo tecnico-addestrativo, orientati sulla propensione alla performance, che implicano, ovviamente, la paura di perdere e di sbagliare, enfatizzando al massimo l’importanza dei risultati a breve termine. In pratica, non basta fare meglio, ma è necessario fare meglio degli altri.

In questo modo, la conduzione di un’attività didattica accelerata e anticipatoria perde di vista la vera finalità educativa dell’esperienza sportiva, che andrebbe centrata, principalmente, sullo sviluppo della competenza personale (ossia sul raffronto con i propri miglioramenti personali).

Si continua a pretendere, insomma, il raccolto a breve termine, senza aver avuto la pazienza di seminare e rispettare i naturali ritmi di crescita di ogni bambino.

In questo modo, l’adolescente considera l’esperienza vissuta come una vera e propria forma di “tradimento”, che prende forma e consistenza con una graduale e progressiva saturazione psicologica, dovuta ad un eccessivo somministrazione e accumulo di “tossine sportive”.


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Come intervenire

In un quadro così preoccupante è necessario sottolineare l’esigenza di pensare ad un’attività di alfabetizzazione etica e culturale del fenomeno sportivo, che non si esaurisca in un breve periodo della vita, ma che continui ad alimentare sempre l’interesse, il desiderio, la motivazione di una pratica sistematica, che rimangano vivi, anche se in forme diverse, oltre il periodo agonistico ufficiale.

Bisognerà, intanto, che le Agenzie che si occupano di attività motorio-sportiva giovanile restituiscano ai bambini il gusto del gioco, che è stato loro sottratto per sostituirlo con un’attività troppo codificata ed analiticamente impostata. 

Ciò comporta, ovviamente, una rivisitazione dell’attività svolta, orientandosi verso una rifondazione di principi, finalità, contenuti, criteri organizzativi, metodologie innovative, stili di conduzione dell’attività didattico-educativa che abbiano, come orizzonte di riferimento fondamentale, le motivazioni primarie dei bambini e, come bussola pedagogica, il loro diritto al gioco autentico, che non sia snaturato e inficiato dalle esigenze, dalle motivazioni e dalle stimolazioni opprimenti dei genitori e delle Società sportive.

Un simile piano d’intervento dovrebbe coinvolgere la scuola e gli enti locali, con i quali le Agenzie deputate alla promozione sportiva potranno stipulare un’alleanza educativa integrata, individuando precisi accordi di programma, congiuntamente elaborati ed eticamente impostati.

Tale progettualità potrà essere attivata mediante precisi Protocolli d’Intesa, che prevedano la messa in campo, con un impegno congiunto, di vari livelli di attività, in cui ci sia spazio per un’attività autenticamente coinvolgente, rivolta alla generalità della popolazione scolastica e, nel contempo, per un’attività sportiva mirata e precisata, per gli allievi con particolari vocazioni, predisposizioni e attitudini.

Bisogna avere, insomma, il coraggio di effettuare una sorta di rivoluzione copernicana, in cui i vari soggetti, istituzionali e non, possano concepire l’educazione motorio-sportiva come un modo di saper essere e di saper vivere, proiettato verso un costume di vita permanente, che investa tutte le fasce di età in una dimensione vivacizzante e arricchente dal punto di vista umano.