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La diagnosi di sterilità nella coppia

sterilità

Con il termine sterilità si intende l’impossibilità clinica di procreazione, pur in presenza di rapporti non protetti, posti in essere con una frequenza di 2-3 volte alla settimana nell’arco di 12-18 mesi.

Di fronte ad una diagnosi tanto destabilizzante, le risorse egoiche della coppia vengono letteralmente depauperate, rendendo probabile l’instaurarsi di scenari reattivi altrettanto disfunzionali e dannosi (depressione, ansia, isolamento). Reagire con resilienza non è facile, ma è necessario per impedire alla portata critica dell’evento di compromettere l’equilibrio, il benessere e la stabilità del Sé e del legame stesso.

La diagnosi di sterilità vissuta nella coppia

La possibilità di generare un figlio rappresenta uno dei principali investimenti del rapporto a due, senza il quale lo stesso concetto di coppia può essere avvertito come mancante, incompleto, deprivato di un elemento indefettibile.

Il progetto generativo non si esaurisce soltanto in componenti oblative, finalizzate all’accudimento di un altro da Sé, né trova la propria motivazione in una dimensione esclusivamente biologica, e dunque volta alla prosecuzione della specie. Esiste una non trascurabile componente narcisistica nel progetto con cui la coppia decide di mettere al mondo un figlio: un essere vivente nel quale investire materialmente ed affettivamente parti significative del Sé.

Anche per questo un fallimento nella procreazione è sovrapponibile ad un fallimento della coppia –come universo duale- e dei singoli componenti -come individui- , da cui si origina una realtà deprivante che, come ogni vissuto di perdita luttuosa, necessita di adeguata rielaborazione.

La diagnosi di sterilità disegna uno scenario inclemente, e di improbabile reversibilità: il bambino nella mente a lungo immaginato dai genitori non troverà un riscontro reale né realistico, ma rimarrà confinato in uno spazio allucinatorio che, all’insorgere della diagnosi, potrà assumere i connotati di una fantasia persecutoria.

Si fanno strada sentimenti di invidia, di rabbia, di colpevolizzazione. “Perché a me, perché a noi?” è la domanda più frequente, in un inclemente rimuginio di pensieri che si ripercuote compulsivamente, ripercuotendosi in modalità trasversale in tutte le dimensioni esistenziali della coppia:

La diagnosi nella dimensione di coppia

La sterilità implica una rinuncia all’Ideale dell’Io genitoriale, potenzialmente esitabile in vissuti depressivi, isolamento,  impoverimento narcisistico. La certezza della diagnosi è assimilabile ad un lutto improvviso, e come tale comporta la perdita di oggetti parziali emotivamente e affettivamente investiti in un funzione di riconoscimento del Sé.

La dimensione corporea viene di colpo percepita come estranea, inaffidabile, fautrice di un doloroso tradimento che ha destabilizzato la dimensione soggettiva, coniugale e intergenerazionale della coppia, menomando altresì l’aspetto sociale. In certi casi il corpo viene vissuto come una dimensione ferita, la tessera di un mosaico che non potrà venir completato, dando vita ad un vuoto inguaribile. Molte coppie percepiscono la dimensione di sterilità come un’autentica malattia, una sorta di invalidità permanente di fronte alla quale si rende necessaria una terapia supportiva, finalizzata  a ripristinare il controllo egoico mobilitando le risorse personali in un canale adattivo (Soubieux e Soulè, 2007).


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La reazione alla diagnosi di sterilità

Le reazioni individuali risultano differenziate nei rispettivi generi sessuali.

La donna che non riesce ad avere un figlio tende a colpevolizzarsi, sentendosi spesso sbagliata, mancante, inferiore alle altre. Una donna a metà. Ella prova vergogna non soltanto per non essere riuscita a realizzare un’aspirazione individuale, ma anche per non aver ottemperato quei compiti “procreativi” che la società le affida da millenni. La diagnosi si tramuta per questo in un fallimento personale di cui prova vergogna nei confronti della famiglia d’origine, del compagno e della stessa società.  È una sconfitta depauperante che va a colpire una componente essenziale dell’identità femminile:  quella generativa.

I vissuti più frequenti sono di invidia e inferiorità verso le donne- appartenenti alla propria famiglia o estranee- che sono riuscite a realizzare il progetto di maternità; a questo conseguono reazioni profondamente depressive e autocolpevolizzanti, tuttavia mitigate da una maggior tendenza – da parte della donna- ad avvalersi di un supporto sociale o terapeutico in grado di aiutarla a ripristinare l’omeostasi emotiva.

La donna è, inoltre, meno propensa a rinunciare al progetto di genitorialità. Le statistiche, infatti, confermano come l’iniziativa di intraprendere progetti di fecondazione assistita e di adozione provenga maggiormente dall’elemento femminile della coppia.

E l’uomo?

Il senso di paternità è ispirato da ragioni profondamente narcisistiche: per quanto sia presente, anche in questo caso, una componente affettiva e di accudimento, per un maschio procreare costituisce soprattutto una dimostrazione della propria virilità. Una profonda gratificazione della potenza del Sé, ma anche la dimostrazione di un legame alla vita e del trionfo sulla morte. Il dolore per una mancata procreazione viene amplificato dalla tendenza alla chiusura verbale e all’isolamento, tipici del genere maschile. I meccanismi di difesa maggiormente riscontrabili sono negazione, colpevolizzazione etero diretta, spesso proiezione massiva verso elementi esterni alla coppia, in qualche caso razionalizzazione, nel tentativo di fornire supporto e protezione alla partner.

Non mancano reazioni depressive e ansiogene – sebbene minori, queste ultime, rispetto al genere femminile. In particolare si riscontra come, quando la sterilità dipende dal membro maschile della coppia, le reazioni depressive, di autoisolamento e di stigmatizzazione si mostrino più frequenti e durature, a causa di una percezione del Sé maggiormente narcisistica e di una minore disponibilità, da parte del maschio, ad accettare un supporto sociale/terapeutico che lo aiuti a verbalizzare e a rielaborare il disagio (Petok, 2006).

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