“Lo scopo di una strategia organizzativa è quello di creare strutture e processi gestionali che promuovano l’impegno e prevengano il burnout” (Santinello e Negrisolo, 2009)
Tema complesso e controverso ma attuale, il burnout pare essere una delle barriere emotive più difficili da sciogliere, soprattutto in ambito sanitario.
Il burnout in ambito sanitario
Il formatore e scrittore Gianni Del Rio afferma che il danno diretto del burnout sull’operatore risulta immediatamente evidente ed è altrettanto chiaro che gravi sono le ripercussioni sia a livello della qualità delle prestazioni sia dell’efficienza dei servizi. Nell’ambito sanitario chi viene colpito da burnout spesso compromette la qualità delle prestazioni erogate, in quanto diminuiscono sensibilmente il livello d’attenzione, la capacità tecnica specifica e le competenze relazionali.
Altro dato importante è quello riguardante la sottostima che gli operatori hanno del fenomeno: molti non chiedono aiuto, non riconoscendo in tempo la situazione che li coinvolge oppure incrementano le ore lavorative e gli impegni, trascurando ulteriormente la situazione (Santinello e Negrisolo, 2009).
Che cos’è il Burnout
Il termine burnout, che in italiano possiamo tradurre come “bruciato, “esaurito”, è comparso per la prima volta nel 1930 in ambito sportivo. Indicava l’incapacità dell’atleta di ottenere successi continui e di alto livello nel tempo. L’atleta “svuotato”, incapace di rispondere adeguatamente alle competizioni, appariva esaurito e senza più la possibilità di ottenere ulteriori performance di alto livello.
Fu poi intorno agli anni Sessanta che l’utilizzo del termine si diffuse e venne così usato per riferirsi a pazienti con tossicodipendenze: individui senza risorse o energie e senza motivazione. Successivamente, nel 1974, il termine venne riproposto in ambito organizzativo con la pubblicazione “Staff burnout” dello psichiatra Freudenberger. Egli lo definì come il fallire, il logorarsi, l’esaurirsi a causa di un’eccessiva richiesta di energia e risorse. Questo concetto venne ripreso dalla psicologa sociale americana Christina Maslach, che iniziò a parlare di “Sindrome del burnout”.
La Maslach, in particolare, osservò che gli operatori che svolgevano professioni ad elevata “prestazione relazionale” dopo mesi o anni di generoso impegno iniziavano a manifestare una sorta di apatia, indifferenza, nervosismo, irrequietezza e cinismo nei confronti del lavoro. Da qui il termine iniziò a essere rivolto prevalentemente ad una specifica tipologia di lavoratori: i professionisti dell’aiuto (helping professions). Il filosofo statunitense Harold Cherniss nel 1983 affermò che il termine burnout fa riferimento alla situazione in cui ciò che un tempo era una vocazione diventa soltanto un lavoro. Non si vive più per il lavoro, ma si lavora unicamente per vivere.
La sindrome di Burnout
Nel 1994 l’Organizzazione mondiale della Sanità inserisce il Burnout nella classificazione internazionale delle malattie tra i “fattori influenzanti lo stato di salute”, definendola come uno “stato di esaurimento vitale”.
Quando si parla di burnout, è importante non confonderlo col concetto di stress. Lo stress è una reazione aspecifica dell’organismo a qualsiasi stimolo esterno e interno, tale da provocare meccanismi di adattamento e riadattamento atti a ristabilire l’omeostasi. Esso rappresenta la risposta dell’organismo alle continue e quotidiane stimolazioni provenienti dall’ambiente esterno.
Qualsiasi tipo di stimolazione (stressor) determina nell’individuo una reazione atta a ripristinare il suo riequilibrio. Gli stimoli, che siano essi positivi o negativi, costringono il nostro organismo ad adattarsi ad essi poiché lo stress funziona come una sorta di segnale d’allarme che scatta nel momento in cui qualcuno o qualcosa turba il nostro equilibrio psicofisico.
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Gli stadi di sviluppo dello stress
Hans Selye, medico austriaco e studioso della così detta sindrome generale di adattamento, individuò tre stadi di sviluppo dello stress:
- Reazione d’allarme: si caratterizza per la presenza di uno stressor che innesca la comparsa di fenomeni di difesa dell’organismo, si manifesta con aumento della frequenza cardiaca, della tensione muscolare, dilatazione delle pupille e mobilitazione di tutte le risposte a disposizione del corpo.
- Adattamento: la sua durata varia in base al tempo in cui agisce l’agente stressante e alle capacità individuali di difesa. In questa fase l’organismo cerca di adattarsi allo sforzo per raggiungere l’equilibrio, spesso gli indici biologici apparentemente si normalizzano.
- Esaurimento: rappresenta la fase finale in cui la condizione stressante andrà ad indebolire l’organismo e favorirà la comparsa di patologie psicofisiche o somatizzazioni.
Lo stress, però, non sempre è negativo, spesso è un meccanismo d’azione motivante che spinge la persona a realizzare un certo obiettivo (eustress).
Da ciò si deduce che il burnout può derivare da un tipo di risposta al distress, ovvero da situazioni che risultino particolarmente minacciose e angoscianti per l’individuo. Può essere assimilato ad una forma di disagio che si caratterizza nel sentimento di non farcela più, senso d’ insoddisfazione e d’ irritazione quotidiana, prostrazione e svuotamento, delusione, impotenza da parte di lavoratori che si sentono sovraccaricati dalle loro stesse competenze quotidiane.
È la sindrome di chi si esaurisce “a tutto campo”, senza una precisa sintomatologia psicosomatica ma in maniera sottile e impercettibile, con tempi molto lunghi. Se lo stress è il risultato di uno squilibrio fra risorse disponibili e le richieste dell’ambiente esterno, così non è per il burnout che rappresenta invece un insuccesso nel processo di adattamento. Il burnout è spesso accompagnato anche da un malfunzionamento cronico dell’organizzazione lavorativa che porta il lavoratore a sviluppare fattori di rischio. Non necessariamente quando c’è una situazione di stress c’è anche burnout mentre non è vero il contrario: non c’è burnout senza la presenza di distress o stress cronico.
Segni e sintomi di stress lavorativo con rischio di sviluppo di burnout
Alcuni segni e sintomi di distress lavorativo negli operatori sanitari sono:
- Alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno
- Sensazione di fallimento
- Rabbia, risentimento, negativismo
- Senso di colpa, disistima, vergogna
- Scoraggiamento ed indifferenza
- Senso di stanchezza e esaurimento tutto il giorno, fatigue cronica
- Guardare frequentemente l’orologio
- Notevole affaticamento dopo il lavoro, desiderio d’isolamento e ritiro (limitazione dei contatti sociali)
- Perdita di sentimenti positivi nei confronti degli utenti, rimandando e limitando i contatti con essi
- Modello stereotipato di utenti e cinismo verso essi
- Incapacità di concentrarsi
- Sensazione di immobilismo
- Seguire in modo crescente procedure fortemente standardizzate da attuare in tempi lavorativi “very fast” e per le quali non si è ricevuta un’adeguata formazione
- Insonnia
- Evitare discussioni di lavoro con i colleghi
- Preoccupazione per sé
- Incremento dell’uso di psicofarmaci per mantenere un apparente stato di controllo e calma
- Somatizzazioni: disturbi dell’apparato respiratorio, cefalee e malesseri gastrointestinali
- Rigidità di pensiero verso i cambiamenti lavorativi, fissità nei ruoli e procedure
- Sospetto e paranoia verso il gruppo, mancanza di team building e team working
- Conflitto coniugale e con i familiari che influenzano negativamente il lavoro e viceversa
- Alto assenteismo