La condotta autolesiva, ossia una pulsione volta a provocare danni, sofferenza e nocumento a se stessi, è generalmente ispirata al raggiungimento dei seguenti obiettivi.
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L’autolesionismo come regolazione pulsionale
Di fronte ad un pressione pulsionale non gestibile, avvertire un dolore esterno al Sé rappresenta un fattore neutralizzante di immediato sollievo. La ferita e il dolore alla stessa collegato diventano il mezzo per ripristinare un’omeostasi emotiva, il fattore neutralizzante di un caos affettivo non esplorabile cognitivamente né simbolicamente, e tuttavia avvertito con intensità pervasiva.
Stabilire un contatto con il Sé
Il numbing connesso a stati di depersonalizzazione è spesso in grado di allentare la perdita di contatto emotivo, cognitivo ed esistenziale con il Sé: in questo caso, il dolore interviene come amplificatore della propriocezione esogena ed endogena, riducendo la percezione dissociativa. Si tratta di una sorta di localizzatore spazio-temporale: un appiglio concreto al quale far riferimento per eludere stati di totale evasione del Sé.
Ripristinare percezioni vitali
In un contesto mortifero, distrutto da un nucleo depressivo che ha desertificato la dimensione motivazionale, domina una totale assenza di stimoli, sia fisici sia emotivi. Ferirsi fino a provare dolore costituisce per questo una stimolazione visuo-sensoriale da cui, a sua volta, può scaturire la sperimentazione di nuove pulsioni, istinti motivazionali generati da una sofferenza che mentre ferisce vivifica, sottraendo il Sé da un vissuto di annichilimento totale.
L’autolesionismo come stimolatore di relazione
Nel caso in cui le condotte autolesive vengano praticate in pubblico, siano rese visibili o vengano consapevolmente esposte (ad esempio un soggetto che fa mostra dei tagli che si è auto inflitto alle braccia) è ben probabile che l’effetto più direttamente conseguente sia la mobilitazione preoccupata dell’ambiente circostante. Provocarsi dolore può risultare in questo caso un fattore di attivazione ambientale, in grado di ottenere un’attenzione avvertita come necessaria per contrastare un profondo senso di vuoto e solitudine.
Evitare ansia da separazione
Il ricorso a strategie autolesive può testimoniare un’ansia da separazione mal gestita, in cui la presenza corporale diventa il simbolo di un appiglio che sostiene e contiene il Sé. Esattamente come il bambino abbandonato, nelle prime fasi di vita, cerca un fattore contenitivo nel proprio soma attraverso dondolii, sfregamenti della pelle, condotte di autoeccitazione, anche in questo caso il soggetto ricerca, attraverso la mediazione somatica, un sollievo al dolore per la separazione dall’oggetto affettivo di riferimento.
Evitare angosce di fusione
La strategia auto lesiva può altresì sottendere un’angoscia fusionale, soprattutto in un contesto relazionale agglutinato (ad esempio un nucleo familiare schizoide o con scarsi investimento relazionali), i cui i confini egoico-psichici non riescono a mantenere adeguate distanze, o si mostrano scarsamente delineati. L’angoscia di venir pervasi da un Io massivo-fagocitante viene dunque gestita attraverso un contatto somatico doloroso, in cui proprio la sofferenza costituisce un fattore di autoconferma; uno strumento per dichiararsi indipendenti da un massa identitaria confusiva che impedisce la struttura di un Sé consapevole e autonomo.
L’autolesionismo come memoria autobiografica
In un contesto traumatico in cui la memoria appare frammentata, scomposta in una serie di frammenti non conciliabili e soprattutto non riferibili al Sé, stabilire un contatto, seppur doloroso, con la propria dimensione somatica, può risultare uno strumento utile a conferire un ordine agli eventi, un contesto spazio temporale con cui dare un senso ad un vissuto incomprensibile e per questo persecutorio.
Le ferite visibile e percepibili sulla propria pelle costruiscono così una sorta di mappa, i confini esteriorizzati di un dolore non verbalizzabile perché non integrato nella coscienza consapevole e percepibile soltanto attraverso i canali sensoriali.
L’autolesionismo come punizione
Punizione del corpo
All’interno di un contesto evolutivo, l’autolesionismo può rappresentare l’espressione del disagio connesso ad un veloce e incontrollabile mutamento corporale. L’adolescente, ad esempio, vede il proprio corpo mutare di giorno in giorno, con velocità incomprensibile e incontrollabile. La percezione dello schema corporeo risulta contaminata da vissuti di matrice prettamente emotiva, dando vita ad una dimensione valutativa autosqualificante in cui la percezione del Sé somatico non si mostra all’altezza delle aspettative, e comunque non in grado di reggere il confronto con i pari e con i parametri superegoici introiettati.
Il Sé ideale dell’adolescente è particolarmente severo, e questo lo porta a giudicare con intransigenza il minimo difetto fisico, talvolta amplificandone l’entità e il disvalore in una prospettiva dismorfica.
La rabbia verso questo fallimento viene espressa attraverso la punizione masochistica di un corpo che ha tradito le aspettative, provocando un’insanabile ferita narcisistica che impedisce il pieno e consapevole godimento del Sé.
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Punizione del Sé
Il desiderio di auto punizione, anziché da un difetto di natura fisica, può risultare frutto di una pulsione autopunitiva, a sua volta originata da una meccanismo di formazione reattiva. Dunque, una pulsione distruttiva ab origine rivolta verso un oggetto non accettabile dall’Io (ad esempio, un genitore abusante o maltrattante) si converte nel suo esatto contrario. E dunque il Sé perseguitato diviene il carnefice da punire, da screditare, da distruggere definitivamente al posto del Sé dell’altro.